Betlemme è in festa alla vigilia di Natale: fin dall’alba centinaia di scout marciano al ritmo di tamburi e cornamuse per le vie della città, in attesa dell’ingresso del patriarca di Gerusalemme dei Latini, mons. Pierbattista Pizzaballa. È un giorno di grande gioia e manifestazione identitaria per tutti i cristiani di Terra santa.
Monsignor Pizzaballa, qual è il cuore del suo messaggio in questo Natale?
Il messaggio di Betlemme è sempre lo stesso: cambiano le circostanze attorno, ma il messaggio è sempre lo stesso, è un messaggio di vita, di amore, di decisione determinata di Dio che, nonostante tutto, entra nella vita dell’uomo e la cambia radicalmente. Descrivendo quello che di positivo e di negativo abbiamo vissuto quest’anno ed esprimendo le mie preoccupazioni, desidero aiutare tutti a guardare quel Bambino che ha cambiato la vita del mondo e può cambiare ancora la nostra se solo ci crediamo.
Una settimana prima di Natale ha visitato, come ogni anno, la piccola comunità cristiana di Gaza. Sono 1.065 su due milioni e 300mila abitanti nella Striscia di terra più popolata e blindata del mondo, eppure testimoniano una fede autentica e resiliente…
È sempre un incontro piacevole per me, perché è una bella comunità, coi suoi problemi, ma molto unita e gioiosa, piena di vita come dimostrano i battesimi che celebro ogni volta che vado a Gaza. Abbiamo visto per la festa dell’accensione dell’albero di Natale e del Presepe vivente partecipare contenti anche tanti musulmani e musulmane, questo significa che, se si mette da parte la politica, le relazioni sono più semplici. L’esperienza dei cristiani di Gaza ci dice innanzitutto che non bisogna mai rinunciare a sperare, mai rinunciare a credere, ad avere un ideale alto, un cuore pieno anche di gratitudine e di amore. Questa comunità vive in una situazione molto difficile come tutti gli altri abitanti di Gaza. Essendo cristiani, però, sono una piccola minoranza forse ancora più accerchiata, ma ci mostrano che si può essere segni di pace, di speranza e di amore anche in situazioni così complicate. Durante la mia visita alla Caritas ho incontrato un direttore sanitario musulmano, che mi ha detto: caritas significa “love in action”, amore in azione. Credo che sia una bellissima testimonianza.
Come ogni Natale, la maggioranza dei cristiani deve chiedere un permesso alle autorità israeliane per uscire dalla Striscia. Un permesso che è sempre temporaneo, chi decide di rimanere fuori da Gaza col permesso scaduto per scappare da guerra e disoccupazione diventa illegale per le autorità israeliane e ai membri delle famiglie rimaste a Gaza viene poi per anni negato il permesso di uscita per ricongiungersi coi familiari. Non è una punizione eccessiva?
Riguardo ai permessi, ne abbiamo ricevuti fino ad ora 647. Non siamo messi così male, diciamo la verità. È un buon numero, considerati i problemi che invece avevamo nel passato. Sul resto, onestamente non me lo spiego. Probabilmente le autorità israeliane vogliono scoraggiare il fenomeno dell’infiltrazione illegale tra Gaza e i Territori palestinesi. È un modo, però, che non funziona e crea profonda divisione all’interno delle famiglie. A spiegarmi questo non riesco dal punto di vista umano. Probabilmente sono anche algoritmi, sono computer che decidono. Mi rifiuto di credere che ci sia una mente che decida cosa fare, caso per caso.
Nella sua diocesi, specie in Israele, ci sono anche altri cristiani in difficoltà coi permessi: non sono palestinesi, ma in gran parte migranti asiatici. Quali problematiche devono affrontare e qual è il loro contributo alla Chiesa di Gerusalemme?
Abbiamo una presenza di decine di migliaia di migranti dall’India, dalle Filippine, dallo Sri Lanka, dalla Cina, dall’America latina… Hanno portato più vitalità nelle nostre chiese, perché riempiono le chiese con molta facilità il venerdì e il sabato. Questo è molto bello. Sono persone che vivono in situazioni molto difficili dal punto di vista della vita sociale. Non sempre sono rispettati nei loro diritti. La nostra maggiore preoccupazione sono i loro figli. Ci sono più di un migliaio di bambini illegali: legalmente non potrebbero stare più in Israele, ma di fatto vivono, sono cattolici che crescono come israeliani, sono in una sorta di limbo giuridico e hanno bisogno di un supporto sia legale che sociale.
Avete appena annunciato anche l’apertura di un ufficio di assistenza legale ai religiosi in Terrasanta. Perché è diventato necessario?
Perché anche molte case religiose maschili e femminili vivono in una sorta di limbo giuridico. Dal momento che l’accordo concordato tra Israele e Santa Sede non è stato firmato e non sappiamo se sarà firmato, molte case religiose si trovano in una situazione di mancanza di chiarezza del loro status giuridico, che incide su tanti aspetti, anche i più semplici. Come aprire un conto in banca o gestire i propri dipendenti e così via. Molte congregazioni religiose piccole non sono in grado da sole di gestire una situazione sempre più complessa dal punto di vista legale: le leggi cambiano e diventano sempre più articolate. Per questo abbiamo pensato di venire in aiuto con questo ufficio legale di supporto.
Come Ordinari cattolici di Terrasanta avete rilasciato nei giorni scorsi un comunicato molto preoccupato per il Governo che si sta profilando in Israele. L’accordo raggiunto da Benjamin Netanyahu, che guiderà il suo sesto esecutivo, prevede a capo di ministeri decisivi per la sicurezza e i rapporti coi palestinesi esponenti politici con posizioni nazionaliste che rasentano il razzismo. Quali conseguenze avrà, a suo giudizio?
È una situazione molto preoccupante, che abbiamo espresso in maniera molto chiara. Può portare a una esacerbazione dei rapporti sia all’interno di Israele tra le diverse comunità ebraiche e tra la comunità ebraica e la comunità araba, sia nei confronti dei palestinesi. In Palestina può solo peggiorare una situazione che di per sé è già molto grave, in forte ebollizione. Queste provocazioni razziste, queste espressioni anche nel linguaggio molto dure da parte di certi politici arrivati al Governo possono solo gettare benzina sul fuoco.
Questo anno si chiude con il bilancio di sangue più alto dai tempi della Seconda Intifada: 167 palestinesi, di cui gran parte giovani miliziani armati, uccisi e 27 civili israeliani morti in attentati. Cosa direbbe a questi giovani palestinesi che scelgono le armi?
Innanzitutto dico, e l’abbiamo detto anche come Ordinari, che la violenza non paga. Abbiamo visto nel passato che la violenza non paga, anzi crea ulteriore violenza e peggiora la situazione. Posso, però, anche dire che capisco la loro stanchezza di vivere sempre come cittadini di serie B o di serie C, senza rispetto per la loro dignità, senza dare loro chiare prospettive per il futuro. Oltre il 50% dei palestinesi ha meno di 25 anni e desidera una vita normale a casa loro. Capisco la loro rabbia, che però deve trovare altre forme di risposte, altre forme di dialogo, chiamiamolo così, perché altrimenti la situazione può solo peggiorare per tutti.
Benjamin Netanyahu ha detto che è vicino un accordo con l’Arabia Saudita, che risolverà il conflitto israelo-palestinese. Nel frattempo gli insediamenti nei Territori palestinesi continuano ad espandersi a macchia di leopardo, tanto che uno Stato palestinese con una unità territoriale è difficile da immaginare.
La soluzione della questione israelo-palestinese non dipende né dall’Arabia Saudita né degli Stati Uniti né della Russia né dell’Europa, dipende da Israele e dalla Palestina. Se non ci sarà un dialogo diretto e se non ci sarà un confronto anche duro ma chiaro tra le due parti non ci sarà alcuna soluzione. Allo stesso tempo, stando così le cose, è molto difficile credere che sia possibile una soluzione. Non possiamo dire che i palestinesi non abbiano diritto ad avere un loro Stato, quindi è una soluzione che non si trova in questo momento.
Quest’anno si conclude anche con una buona notizia dalla Terra santa: il ritorno dei pellegrini. Perché è così importante per i cristiani locali?
L’identità della chiesa di Terrasanta è fatta di due polmoni: la chiesa locale con i suoi abitanti palestinesi e non palestinesi, ma locali residenti qui, e i pellegrini che vengono da tutto il mondo. Si può respirare anche con un solo polmone, ma due polmoni danno una pienezza di respiro alla vita di questa chiesa e portano gioia. C’è poi un aspetto molto concreto: i nostri luoghi santi hanno bisogno anche dei pellegrini per le tantissime attività delle nostre famiglie cristiane, che permettono loro di vivere con dignità del loro lavoro. Il ritorno dei pellegrini ha avuto numeri molto più alti del previsto e tanti provengono da zone nuove: meno Europa e più Asia, America e anche Africa.
Celebra il Natale a Betlemme: quale luce si irradia dalla grotta della Natività in un mondo che, come ripete Papa Francesco, sta vivendo la terza guerra mondiale?
È una situazione molto difficile, che crea tante paure. La guerra produce paura, ma è anche frutto della paura. Il Natale invece illumina i nostri occhi e deve portare nel nostro cuore quello sguardo che forse non cambierà la situazione nel mondo – non risolveremo noi la guerra di Ucraina e di Russia – ma potremo con il nostro cuore e con il nostro sguardo attivare gesti di amore e di pace che forse non possono cambiare il mondo, ma possono cambiare la vita di qualcuno.
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