Più volte nel suo grande magistero San Giovanni Paolo II ha ricordato che l’Europa ha bisogno di respirare con due polmoni: quello dell’Occidente e quello dell’Oriente. “In effetti, come è impossibile pensare alla civiltà europea senza l’opera e l’eredità benedettina, così non si può prescindere dall’azione evangelizzatrice e sociale dei due santi Fratelli di Salonicco (Cirillo e Metodio)” (Angelus del 15 febbraio 2004).
C’è però il rischio, a causa della situazione attuale, di mettere da parte o addirittura di perdere la profondità di una tradizione spirituale dalla quale abbiamo bisogno ancora oggi di imparare. Cosa riconosciuta sia da Benedetto XVI, che citò il martire Pavel A. Florenskij nell’introduzione al Regina Coeli del 16 maggio 2010, sia da Papa Francesco, acuto lettore di Fëdor Dostoevskij. Chiediamo a padre Giovanni Guaita, sacerdote ortodosso, discepolo di Aleksandr Men’ (1935-1990), prete ortodosso tra le figure più importanti della Russia religiosa dell’ultimo secolo, di accompagnarci nel cuore della tradizione russo-ortodossa per farci cogliere la bellezza del Natale.
Padre Guaita, perché il Natale ortodosso è preceduto da un lungo periodo di digiuno?
Il “digiuno del Natale”, chiamato nella Chiesa d’Occidente Avvento, si afferma in tutta la cristianità abbastanza tardi, verso il V secolo, certamente in conseguenza dello sviluppo straordinario del monachesimo. All’inizio si trattava di un digiuno breve, di una settimana, prima dell’Epifania, festa nella quale originariamente si commemorava anche la nascita di Cristo. Questa usanza, la più antica, è stata conservata dalle Chiese precalcedonesi. Solo dopo il V secolo le due feste della Natività e dell’Epifania furono separate e il 25 dicembre si impose in tutta la cristianità come data della festa del Natale, allo scopo di dare un contenuto cristiano alla popolare festa pagana del sole invitto, coincidente con il solstizio invernale: Cristo, “sole di giustizia” nasce in terra. Nello stesso tempo il digiuno prima del Natale, per analogia con la Quaresima, fu portato a 40 giorni.
La Chiesa latina sottolinea che l’Avvento, a differenza della Quaresima, non è una preparazione penitente, ma un’attesa gioiosa. Anche nella tradizione bizantina il “digiuno del Natale” non ha la severità della Quaresima e del digiuno prima della festa della Dormizione, anche come limitazioni alimentari. Secondo san Giovanni Crisostomo “chi crede che digiunare significhi soltanto astenersi dal cibo si sbaglia. Il vero digiuno è evitare il male, frenare la lingua, mettere da parte l’ira, domare le concupiscenze, fermare la calunnia, la menzogna e lo spergiuro”. Nell’anno liturgico ortodosso ci sono quattro lunghi periodi di digiuno: la Quaresima (o Grande Digiuno, di 40 giorni, senza contare sabati e domeniche), l’Avvento (Digiuno del Natale, detto anche Digiuno dell’apostolo Filippo, dal suo giorno di inizio, di 40 giorni di calendario), il Digiuno degli apostoli (dal lunedì dopo Pentecoste alla festa dei ss. Pietro e Paolo) e il Digiuno della Dormizione (di 15 giorni). Di questi periodi di digiuno, quello del Natale è per eccellenza il digiuno della speranza, in cui si ricordano i profeti e patriarchi e quindi la lenta preparazione dell’umanità alla venuta del Figlio di Dio. Nei nostri tempi di guerra, tensione, paura e desolazione, esercitarci nella pratica della virtù della speranza è certamente la cosa più importante, direi vitalmente necessaria!
L’icona della Natività è molto amata dai fedeli ortodossi: che cosa insegna al mondo occidentale?
In quasi tutte le icone della Natività, la festa del Natale è rappresentata allo stesso tempo secondo i due racconti dei vangeli di Luca e di Matteo. Cioè sono raffigurati sia i pastori che sentono l’annuncio degli angeli, che i Magi che si avvicinano a Betlemme, guidati dalla stella, per adorare il Re bambino. Credo che il primo insegnamento di questa icona stia proprio nel presentarci nello stesso tempo entrambi gli annunci dei due evangelisti. Infatti, per capire il messaggio del Natale, i racconti di Luca e Matteo devono essere letti parallelamente e contemporaneamente. I pastori di cui ci parla Luca sono gente semplice, del luogo: guidati dagli angeli che li rassicurano (“Non temete!”) e danno loro indicazioni precise (“troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”), essi trovano facilmente (“senza indugio”) la capanna di Betlemme.
I Magi del vangelo di Matteo sono invece saggi orientali, che studiano i movimenti degli astri e interpretano le stelle: per giungere a Betlemme essi devono fare una lunga strada, percorrere monti e valli, guadare fiumi e attraversare deserti. Seguire la stella non è semplice (come sempre nella vita!), occorre tutta la loro cultura e esperienza interpretativa, e la stella ogni tanto scompare: per questo sono costretti a chiedere in giro a Gerusalemme che cosa si sa della nascita del Bambino. Del cammino dei pastori nessuno si accorge, se non le loro greggi. I Magi, invece, chiedendo informazioni del tutto “politicamente scorrette”, causano seri timori in tutti, sono probabilmente presi per provocatori e nemici dell’ordine costituito: alle loro ingenue o scomode domande “tutta Gerusalemme restò turbata”, perché tutti capivano a che cosa quelle parole avrebbe potuto spingere l’anziano e folle dittatore Erode… E infatti Erode scomoda tutta l’élite laica e religiosa, gli anziani del popolo e i sommi sacerdoti, fa convocare a corte i Magi, e approfittando della loro ingenuità cerca di farli suoi complici, e infine ordisce e realizza uno dei suoi tanti crimini.
Insomma i pastori e i Magi, come i rispettivi racconti di Luca e Matteo, sono pressoché antitetici. Di comune questi eroi diversissimi hanno la gioia. “Vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo”, dice nel racconto di Luca l’angelo ai pastori, “Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore”. Il coro degli angeli loda Dio, “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama” e, giunti alla mangiatoia, i pastori diventano gioiosi missionari che raccontano a tutti “ciò che del bambino era stato detto loro”, e “tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano”. Anche i Magi, nel racconto di Matteo, dopo le peripezie a Gerusalemme, rivedono la stella che li guida precisamente fino alla capanna. Ed anch’essi “al vedere la stella, provarono una grandissima gioia”.
Conciliando le due tradizioni di Matteo e Luca, l’icona della Natività del Signore vuole dirci che tutti al mondo siamo diversi e diversamente troviamo il cammino che porta a Dio: per qualcuno questo cammino è lungo e irto di difficoltà, per qualcun altro è piano e breve. Ma l’importante è che i percorsi dei Magi e dei pastori si incontrano davanti alla capanna.
La tradizionale icona ortodossa della Natività spesso comprende ancora le due scene del primo bagnetto del bambino e di Giuseppe, che viene tentato dal diavolo, vestito da pastore, sulla paternità del bambino. Anche questi episodi “accessori” in realtà ci trasmettono un messaggio sul quale meditare. Natale, in fondo, altro non è che la festa dell’ingresso dell’Onnipotente nella nostra quotidianità. Il Dio “ineffabile, inconoscibile, invisibile e incomprensibile” – dal canone eucaristico della liturgia di Giovanni Crisostomo – entra nel tempo e nello spazio, prende volto umano diventando uno di noi: con ciò Egli assume la nostra umanità con tutta la sua “prosaicità”, la semplicità della vita di ogni giorno, con i suoi problemi e le sue prove. (1 – continua)
(Vincenzo Rizzo)
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