“In principio era il Verbo”.

Fin dall’inizio che sta al di là di ogni inizio, nello spazio infinito dell’eterno divino, l’Essere di Dio conteneva in sé la capacità di effondersi per essere comunicato. Era come un’onda straripante di incessante condivisione: il dialogo di un amore totalmente corrisposto con il Figlio che, in un punto preciso del tempo, è diventato la manifestazione della forma ultima del Padre.



Il Verbo ha ricongiunto gli estremi della massima lontananza tra il cielo e la terra. Prende il nome di “Parola” perché è la porta spalancata attraverso cui si rivela il volto segreto dell’Assoluto che è la fonte di ogni cosa esistente.

È una Parola che si è fatta carne: “e venne ad abitare in mezzo a noi”. Ha potuto pronunciare parole umane per rendersi comprensibile. Gelosamente registrate, di continuo sono state fatte riecheggiare per raggiungere le generazioni che una dopo l’altra si succedono. Ma innanzitutto il Verbo è una presenza: la proiezione oggettiva del Mistero che altrimenti sfuggirebbe alla presa, in quanto ci oltrepassa da ogni lato. Prima ancora di mettersi a insegnare sulle strade di Galilea, irrompe in uno spettacolo di gloria che fa cantare gli angeli e ammalia i poveri pastori di Betlemme. Porta incisa nella sua figura una bellezza fusa con lo splendore del bene e del vero che così sono resi sperimentabili dall’interno della vita umana, non appena vi si conceda lo spazio che reclamano.



Non è messa in gioco solo la vibrazione sentimentale di un’estetica. La Parola che prende consistenza a partire dal vagito approssimativo del Bambino nato da Maria custodisce in sé tutto lo spessore di dignità del Logos. È una parola di verità, la chiave risolutiva che apre alla conoscenza dell’intreccio stupefacente dei rapporti tra l’ordine di ciò che esiste nella sfera del tempo che passa e l’ordine della Ragione suprema che ha pensato e crea il mondo in cui siamo “gettati”. Il Logos fatto uomo si è incamminato fin dai suoi primi istanti verso la follia del sacrificio che si carica del male altrui e lo riscatta alla radice. Tuttavia anche così si impone con la forza persuasiva di una evidenza che affascina il cuore, passando attraverso una ragionevolezza dilatata fino ai suoi confini più arditamente inclusivi.



Come ha affermato il cardinal Ratzinger in una memorabile conferenza del 2005, “il cristianesimo, fin dal principio, ha compreso sé stesso come la religione del Logos, come la religione secondo ragione”. Al punto che i suoi “precursori” li ha individuati non nelle “religioni” che gli preesistevano, complici della subordinazione dell’essere umano ai vincoli di obbedienza della comunità sociale, ma “in quell’illuminismo filosofico che ha sgombrato la strada delle tradizioni per volgersi alla ricerca della Verità e verso il bene, verso l’unico Dio che sta al di sopra di tutti gli dei”.

Sarebbe una banalità assurdamente riduttiva vedere in questa impostazione una caduta intellettualista. Al contrario, vi si può leggere il richiamo sempre attuale a ripensare il ruolo dell’elemento razionale nella dinamica della fede accolta e vissuta come centro della propria identità. In un certo senso, è solo spingendosi fino a questo vertice di riunificazione tra cuore e ragione che si può sostare adoranti, in modo totalmente lucido e consapevole, davanti al mistero dell’incarnazione che si rinnova nella celebrazione del ciclo liturgico annuale.

Nelle parole che abbiamo citato del futuro papa Benedetto XVI si vede riaffiorare la vena di quel fiume di intelligente modernità che ha percorso tutto il rinnovamento cristiano dell’ultimo secolo. Si ruota intorno all’idea che l’esperienza della promessa cristiana genera uno sguardo nuovo sulla realtà dell’uomo nel suo insieme e sul suo destino nel mondo. La fede contiene in sé il germe di una cultura che richiede solo di essere sviluppata a partire dalle sue premesse esistenziali: si salda alla passione per il vero e trova qui la roccia per il suo più pieno dispiegamento. Vengono subito alla mente le altrettanto geniali parole di san Giovanni Paolo II, quando volle ripetutamente insistere sul fatto che “la sintesi tra cultura e fede non è solo un’esigenza della cultura, ma anche della fede… Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta” (20 maggio 1982).

A ben vedere, questa proiezione del cuore ardente della fede nello spazio della cultura nutrita dallo slancio amoroso della ragione si rivela un tratto costitutivo dell’avvenimento cristiano fin dal suo primo abbozzo nel contesto dell’antichità pagana. Fermi nella convinzione di non potersi “conformare” alla logica del “secolo”, i cristiani delle origini si trovarono naturalmente orientati a “giudicare ogni cosa” per trattenere il “valore” che vi era racchiuso. Si calarono nelle forme della cultura intellettuale diffusa nella civiltà greca e poi latina. Ne assimilarono il linguaggio e posero il suo patrimonio al servizio dell’elaborazione della dottrina, dell’articolazione del culto, della stessa organizzazione istituzionale della Chiesa.

Questa simbiosi tra la luce della fede e il patrimonio delle risorse umane della cultura e del sapere è proseguita senza sosta (ma non senza oscillazioni tortuose) nella lunga corsa dei secoli. Pretendere di ignorarlo, immaginare di poter risalire alla purezza sovrastorica di un annuncio riportato alla spoglia essenzialità del suo “inizio” sarebbe una forma di primitivismo regressivo. Se l’incontro con il fatto cristiano non si immerge in tutto lo spessore di ciò che la ricchezza di una storia plurisecolare di civiltà fiorita nell’alveo dell’antropologia cristiana ha generato con un laborioso cammino di accumulo e di trasformazione (liturgia, sacramenti, teologia, ordine istituzionale, forme del pensiero) si condanna a rimanere l’oggetto di una fede bambina, incollata a un passato mitizzato in quanto modello di perfezione, in sé irriproducibile perché legato a stagioni ormai chiuse per sempre. Sarebbe un cristianesimo nostalgicamente depotenziato, che salva il suo punto di avvio irrinunciabile (l’irruzione di una grazia che trasforma l’esistenza), ma distorce il lavoro di costruzione capace di sollevare a una maturità portatrice di novità irriducibile nel mondo. Senza il supporto della ragione fecondata dal connubio con il cuore fedele, senza far lievitare la fede incarnandola come principio di una cultura si finisce, in ogni caso, con il rimanere sommersi dalla pressione del pensiero dominante che si afferma nella realtà dell’oggi scaturendo in larga parte da sorgenti estranee all’orbita cristiana, appoggiandosi a logiche e strumenti spesso radicalmente alternativi a quelli della sua fisionomia tradizionale.

Certo bisogna intendersi su cosa possa comportare il lavoro della ragione che esplora il mondo del reale e lo mette in collegamento con il principio del divino che è la fonte e il punto di approdo di ciò che evolve nell’esistenza. La cultura non è la sovrastruttura di una fede che può avere, a parte, la sua florida vita autonoma, separata. La mossa della ragione non scatta in un secondo tempo, fuori dalla scintilla dell’avvenimento che cambia il ritmo della storia: è strutturalmente, fin dall’inizio, dentro il moto della fede che aderisce al mistero incontrato e si lancia verso il desiderio di decifrarne le ragioni, tesa a “rendere ragione della speranza che è in noi” (se è lecito parafrasare la I lettera di Pietro, capitolo 3), per espandere, di questo fiore della speranza, tutte le implicazioni di giudizio sui nessi che si irraggiano dal suo centro verso il contorno più esterno e periferico della realtà globale dell’essere. Alla fine, la scommessa è su come far convergere nell’unità ciò che pure è distinto. Si concorre a unificare il molteplice disgregato, per ricondurre ogni cosa al suo fulcro ultimo e definitivo.

In questo movimento della fede che, innervandosi nelle sue fibre più profonde, genera la cultura, cioè la posizione e il giudizio su di sé e sul mondo di chi la vive, a partire dalla sua autocoscienza, si possono attivare tante modalità e accenti diversi, perché diversi sono i livelli e i tipi di realtà a cui si applica la ragione.

Vale la pena soffermarsi sulla pluralità dei registri che hanno pieno diritto di cittadinanza nel flusso dei rapporti tra i due poli interdipendenti di fede e ragione, visti nella loro alleanza.

(1 – continua)

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