“Al cuore e come fondamento di tutto questo che ci sforziamo di costruire è la nostra fede in Gesù risorto vivo e presente in mezzo a noi. E’ questa la gioia del Vangelo, l’Evangelii gaudium, che è il cuore, la roccia e il fondamento della nostra gioia e della nostra speranza, nonostante tutte le difficoltà e gli ostacoli”. In Etiopia, tra conflitti (come nella regione del Tigray, oggi “ringraziando il Signore” sulla via del ritorno alla normalità), pandemia Covid che avanza e tensioni etniche e religiose sempre pronte a divampare con violenza, le difficoltà non mancano certo, eppure monsignor Angelo Pagano, vicario apostolico di Harar, non esita a parlare di speranza, “perché Natale è la festa della speranza, della certezza che tutto quello che viviamo ha un significato profondo. Siamo consapevoli che il cammino della pace, della fraternità e dell’amicizia sociale è lungo, ma non abbiamo alternativa: dobbiamo camminare nella gioia del Vangelo che ci chiama a essere fratelli di tutti nella casa comune che è il creato”.
Com’è oggi la situazione nella regione del Tigray, che è stata interessata da un violento conflitto? Quali difficoltà sta vivendo la popolazione?
Ringraziando il Signore, dopo un mese la guerra, iniziata ai primi di novembre, è ufficialmente finita e piano piano in Tigray la vita sta tornando alla normalità: vengono ripristinate le infrastrutture e riparati gli ingenti danni. La zona è tuttora chiusa, solo poche testimonianze, soprattutto solo telefoniche, sono state finora possibili. Vi sono stati purtroppo decine di migliaia di rifugiati in Sudan per paura dei combattimenti con i relativi gravissimi problemi di assistenza ai profughi: il governo etiopico ha garantito un corridoio umanitario, il governo sudanese ha assistito i profughi al meglio che ha potuto con l’aiuto delle organizzazioni umanitarie come Croce Rossa e Mezzaluna Internazionale, Alto Commissariato Onu per i rifugiati, molte altre associazioni. Ammirevole è stata l’assistenza e l’accoglienza ai profughi temporanei data dalle popolazioni sudanesi vicine al confine. che hanno vissuto quella “fraternità umana” auspicata dal Papa nella sua enciclica “Fratelli tutti”.
In Etiopia non mancano le tensioni etniche e religiose. Che messaggio di speranza e di pacifica convivenza può recare l’enciclica del Papa “Fratelli tutti”?
Il sottotitolo dell’enciclica ci offre una prima sintetica e preziosa indicazione: lettera enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale. Il Papa in questo suo lungo e dettagliato testo ha voluto inserire questi due temi nell’ampio orizzonte sia politico che sociale dell’intera l’umanità e di tutto il mondo. Ma il richiamo e l’invito di Papa Francesco per una fraternità umana, con la sua particolare spiritualità non solo evangelica e francescana, risuona particolarmente importante per noi comunità cattolica che viviamo in un contesto dove vi è una numerosa comunità ortodossa e dove la maggioranza schiacciante è musulmana. Proprio le varie comunità non devono mai stancarsi di educare i loro fedeli, specie i giovani, a comprendere che siamo tutti fratelli, che tutte le religioni sono al servizio della dignità della persona umana e della fraternità umana e civile e ognuno è chiamato a essere e a costruire la pace, come recita il capitolo 8 dell’enciclica. E’ importante e fondamentale la prospettiva dell’enciclica che è l’inclusione, cioè la consapevolezza che le differenze e le diversità sono, pur nella difficoltà di accettarsi, un reciproco aiuto e arricchimento, e la raccomandazione di non escludere nessuno, specie i poveri, gli ultimi, gli indifesi. Importante anche la consapevolezza che la carità non è solo apertura del cuore all’altro, ma anche deve diventare azione concreta per quello che è possibile e che compete a ciascuno.
Lei è vescovo di Harar, una città a maggioranza musulmana. Come sono i rapporti con la comunità islamica?
Per noi che viviamo in un contesto musulmano l’appello alla pace, alla giustizia e alla fraternità è un appello molto importante a cui fare autorevole riferimento, e che è presente nel Documento sulla fratellanza umana, per la pace mondiale e la convivenza comune, firmato da Papa Francesco e dal Grande Imam Ahmed Al-Tayyeb di Al-Azhar del Cairo ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019. La città di Harar, che pure è considerata una delle città sante dell’Islam, nella tradizione storica è nota come “città della pace”. Per chi arriva oggi ad Harar come primo grande monumento della città incontra un grande edificio regionale di fronte al quale campeggia un’enorme scritta con grandi caratteri a dimensione umana che ricorda questa lusinghiera fama.
Ma la convivenza è facile?
Come accennavo, il processo è lungo e delicato, ma è l’unica via per lavorare insieme e costruire un futuro di pace. Per il resto, anche se permangono le tensioni che possono scoppiare all’improvviso e con violenza, per ora la convivenza con i musulmani non presenta evidenti e volute difficoltà. Di conseguenza ancora una volta bisogna comprendere che come capi religiosi abbiamo la necessità di educare e predicare senza stancarci la fratellanza umana, altrimenti il rischio è che la violenza in Etiopia diventi guerra di religione. Ne abbiamo avuto un triste esempio e ne siamo stati testimoni due anni fa, nell’est dell’Etiopia, alla frontiera con la Somalia, con le violenze che hanno interessato il capoluogo Jigjiga e altre città e villaggi della zona.
Anche l’Etiopia è stata colpita dalla pandemia di Covid?
Non abbiamo avuto sentore della pandemia prima del 16 marzo: quel giorno il primo ministro Abiy Ahmed annunciava in televisione che anche in Etiopia erano stati riscontrati alcuni casi di Covid-19 e quindi ordinava di chiudere tutte le scuole con effetto immediato. Dopo qualche giorno è uscito un decreto del governo che vietava di radunarsi insieme, fare feste, funzioni religiose eccetera, come avete sperimentato anche voi in Italia. Questo fatto ha letteralmente stravolto le nostre vite. Per la nostra gente il contatto fisico, lo stare insieme, il mangiare dallo stesso piatto, il vivere in comunità è fondamentale perché è segno di appartenenza reciproca. Tutto questo è stato proibito all’improvviso e senza le necessarie indispensabili spiegazioni.
Da quel momento come si è sviluppata la pandemia?
I bollettini giornalieri per quasi due mesi continuavano a segnalare zero casi positivi in aumento e zero casi di morte, però le proibizioni e restrizioni aumentavano sempre, fino a quando all’improvviso a metà maggio il numero di positivi e morti ha cominciato a crescere sensibilmente. A tutt’oggi sembrerebbe che il virus sia presente specie nelle città e, come è comprensibile, nei campi profughi. L’ultimo bollettino del 21 dicembre presenta un quadro della situazione con questi dati ufficiali: dall’inizio della pandemia a marzo sono stati eseguiti più di 1,7 milioni di tamponi, pari a circa il 14% della popolazione, 120.348 sono i casi positivi e i decessi risultano 1.861. Sembrano numeri irrisori a confronto di quelli italiani, ma purtroppo non è così, perché solo una piccolissima percentuale della popolazione ha potuto fare il tampone. Noi abbiamo raccomandato ai nostri ragazzi e fedeli l’uso delle mascherine, il distanziamento e l’igiene delle mani il più possibile. Le nostre celebrazioni religiose si svolgono nel massimo rispetto delle norme generali, come in Italia, anche durante la distribuzione della comunione. Purtroppo sembra che la maggior parte della popolazione a tutt’oggi non si renda conto del pericolo.
Che contributo offrono all’Etiopia la presenza e l’azione della Chiesa cattolica e delle comunità cristiane?
Inestimabile è il contributo religioso, sociale e umanitario della Chiesa in questi oltre 150 anni di presenza cattolica nel paese. La Chiesa cattolica si è sempre posta come annuncio di salvezza in Gesù Cristo e nella tormentata storia del paese è sempre stata una presenza di pace, fraternità, dialogo. Anche nella recente guerra nel Tigray la Conferenza episcopale etiopica ha lanciato un forte appello al dialogo e alla pace alle due parti in conflitto. In tutte le situazioni critiche vissute dalla nostra popolazione – fame, siccità, carestia, progetti umanitari e sociali – la Chiesa cattolica attraverso le varie organizzazioni europee e americane è sempre stata ed è ancora oggi in prima linea, soccorrendo tutta la popolazione colpita, indipendentemente dalla loro fede religiosa e appartenenza etnica. La Chiesa cattolica ha sempre messo a disposizione della nazione le due caratteristiche del cristianesimo: evangelizzazione e promozione umana.
In che modo?
Le prime scuole sono state le scuole delle missioni. Ancora ci sono diverse scuole cattoliche portate avanti da religiosi, ma sono frequentate per la maggior parte da ortodossi, musulmani e altre confessioni religiose. Siamo presenti in tutta l’Etiopia nella sanità con diverse cliniche, ambulatori, dispensari e anche ospedali. Encomiabile è l’apostolato delle suore della Carità di madre Teresa di Calcutta, che si occupano veramente degli ultimi e abbandonati: Aids, malati mentali, orfani. Nel Vicariato è stato fondato il primo lebbrosario di tutta la nazione alla fine dell’800, che continua tuttora a seguire i pochi malati di oggi con metodi sanitari moderni. E quando il primo ministro Abiy ha fondato il Comitato della pace per discutere e risolvere le tensioni etniche e politiche del paese ha messo il nostro cardinale, Sua Eminenza Berayne Yesus, come presidente.
In un paese che sta sopportando conflitti, sottosviluppo e tensioni che messaggio di speranza porta la nascita di Gesù?
San Francesco “stava davanti alla mangiatoia, colmo di pietà, cosparso di lacrime, traboccante di gioia” [Fonti Francescane n. 1186]: nella consapevolezza che quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna … perché anche noi diventassimo Figli nello Spirito Santo che grida nei nostri cuori: Abbà, Padre! (Galati 4,4.6). San Francesco aveva ben chiaro che il mistero del Natale è il mistero dell’Amore di Dio per ogni uomo. Al cuore e come fondamento di tutto questo che ci sforziamo di costruire è la nostra fede in Gesù risorto vivo e presente in mezzo a noi. E’ questa la gioia del Vangelo, l’Evangelii gaudium, che è il cuore, la roccia e il fondamento della nostra gioia e della nostra speranza, nonostante tutte le difficoltà e gli ostacoli. Ho parlato di speranza perché Natale è la festa della speranza, della certezza che tutto quello che viviamo ha un significato profondo. Certo, siamo consapevoli che il cammino della pace, della fraternità e dell’amicizia sociale è lungo e irto di difficoltà, ma non abbiamo alternativa: dobbiamo camminare nella gioia del Vangelo che ci chiama a essere fratelli di tutti nella casa comune che è il creato.
Qual è l’augurio per i suoi fedeli nella notte di Natale?
Al vicariato rivolgo come messaggio natalizio il messaggio di Gesù di gioia e di speranza facendo mie le parole di Papa Francesco nella “Fratelli tutti”: “Invito alla speranza, che ci parla di una realtà che è radicata nel profondo dell’essere umano, indipendentemente dalle circostanze concrete e dai condizionamenti storici in cui vive. Ci parla di una sete, di un’aspirazione, di un anelito di pienezza, di vita realizzata, di un misurarsi con ciò che è grande, con ciò che riempie il cuore ed eleva lo spirito verso cose grandi, come la verità, la bontà e la bellezza, la giustizia e l’amore. La speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale, le piccole sicurezze e compensazioni che restringono l’orizzonte, per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa. Camminiamo nella speranza”.
(Marco Biscella)