Un anno, quasi, di coronavirus, vissuto nelle corsie di un ospedale, prima il Papa Giovanni XXIII di Bergamo durante la prima, terribile ondata, quella che proprio nella città lombarda procurò una strage, rendendola una città martire, con quelle impressionanti file di camion dell’esercito che portavano le bare negli inceneritori in tutta la provincia, là dove fosse disponibile un posto. Poi il ritorno nella propria città, Aosta, ancora alle prese con i malati di Covid, nonostante la sua professione principale sia quella di cardiologa. Ma come la gran parte del personale sanitario, anche Caterina Bonino è stata mandata là dove c’era più bisogno, “a imparare una nuova professione, a fare quello che non avevo mai fatto, affidandomi come quando decisi di diventare medico a persone da cui sentivo che potevo imparare”.



Lei da Bergamo adesso è tornata nella città dove è cresciuta. Come è la situazione ad Aosta?

Abbiamo avuto tantissimi casi, adesso fortunatamente i ricoveri stanno calando. È stato un impatto pesante anche qui, anche se il paragone non è proponibile con quanto vissuto a Bergamo.

A proposito di Bergamo, lei era lì durante la prima devastante ondata. Come tanti suoi colleghi anche lei, da medico cardiologo, è stata trasferita per occuparsi dei pazienti Covid?



Esattamente.

Come è stato l’impatto iniziale quando è scoppiata la pandemia? Da cardiologa si è trovata a fare qualcosa di mai fatto prima?

Ci sono due aspetti, uno umano e uno professionale, che vanno di pari passo, ma che sono anche un po’ differenti.

Ci spieghi.

Dal punto di vista strettamente medico posso dire che è stato interessante mettersi di fronte a una malattia di cui nessuno sapeva nulla, abbiamo dovuto tornare all’origine della medicina, affrontare una patologia nuova e studiarla. Per quanto mi riguarda non tanto con le autorità sanitarie, ma con quei colleghi con i quali avevo sempre avuto stima, nella realtà clinica quotidiana.



Vuole dire che più che sulle norme, si è basata su una amicizia?

Sì. In casi disperati come quelli che ci siamo trovati davanti, uno si confronta con le persone di cui ha stima; eravamo un gruppo di amiche di varie specialità, ci si confrontava, c’era anche un mio collega che è un cardiologo pediatra. Ho addirittura avuto bisogno di scrivere al mio professore di università perché vedevo cose che non sapevo spiegarmi. Insomma, il bisogno era ed è di affidarsi ad altri.

E dal punto di vista umano?

Dal punto di vista umano, personalmente, come indole ho scelto di fare il medico perché avevo degli esempi che mi entusiasmavano per la loro modalità di occuparsi degli altri. In queste situazioni estreme viene fuori la tua voglia di prenderti cura dell’altro, di quelli che sono più in difficoltà. Viene fuori questa umanità che ho trovato in tantissimi colleghi.

La morte fa parte della vostra professione, ma in quelle settimane a Bergamo è stato un incontro fuori dalla norma.

Di fronte alla morte non c’è una risposta, rimane comunque un mistero. Sul fatto che succeda a una persona piuttosto che a un’altra non ci sono risposte preconfezionate. Di fronte alla morte non rimango mai indifferente, anche se uno se l’aspetta. Anche se pensi che non sia affar tuo, poi è sempre affare anche tuo.

Ad esempio?

Un giorno c’era un vecchietto pieno di problemi, era chiaro che non sarebbe sopravvissuto. Al pomeriggio era riuscito a telefonare al figlio, perché l’aspetto straziante di queste morti era la solitudine in cui si succedevano. Morire da soli è una esperienza terribile. In corridoio si trovava un sacerdote e gli ho chiesto di pregare per lui. Insomma, ti viene sempre di affidarti a un altro, è una cosa che il mio incontro con Gesù mi fa venire fuori dal cuore.

Di questa pandemia non si vede la fine. Lei si sente pronta a continuare?

Sinceramente non nego di avere dei momenti di sfiducia. La certezza è che siamo qui, e in qualche modo ci dobbiamo relazionare con la realtà e che questa realtà sia faticosa. Anche adesso che ho scoperto che un mio paziente è positivo e ho dovuto rinunciare a incontrare i miei amici per scambiarci i saluti di Natale, è stata dura, un sacrificio che mi è stato chiesto dalla realtà.

Natale al tempo del coronavirus: è diverso dagli altri?

No. Gesù è venuto al mondo dove non se lo filava nessuno, anche in questo mondo un po’ conciato male si ripete la stessa cosa, ne sono certa.

(Paolo Vites)

Leggi anche

VACCINI COVID/ Dalla Corte alle Corti: la neutralità che manca e le partite aperteINCHIESTA COVID/ E piano pandemico: come evitare l’errore di Speranza & co.INCHIESTA COVID BERGAMO/ Quella strana "giustizia" che ha bisogno degli untori