“L’attentato che ho subito (25-26 aprile 2021, ndr) rispecchia la situazione del Sud Sudan, la violenza che per tanti anni la popolazione ha subito. Però, nella sofferenza di quanto mi è accaduto, riconosco la grazia che la Chiesa, nella mia persona, possa portare le ferite del popolo sud-sudanese. Certo, si vorrebbe che queste cose non accadessero, però quando si portano queste ferite senza rancore, senza paura, per il bene della gente, si può essere strumenti di riconciliazione e di pace”. È monsignor Christian Carlassare a descrivere in questi termini la vicenda dell’attentato che ha subito nella cittadina Rumbek, situata nel cuore del Sud Sudan.



Un attentato che lo ha visto dapprima picchiato e poi ferito alle gambe con 4 colpi di pistola, da parte di 2 uomini introdottisi in piena notte nella sua canonica. E l’episodio terroristico del tutto inatteso, a carico del sacerdote italiano, si è verificato appena pochi giorni dopo l’arrivo della notizia che papa Francesco lo aveva nominato come nuovo vescovo della diocesi di Rumbek, sede vacante ormai dal 2011, a seguito della morte del vescovo Cesare Mazzolari.



Dapprima curato nell’ospedale del Cuamm a Rumbek, monsignor Christian è stato poi trasferito a Giuba, la capitale del Sud Sudan, e lì all’ospedale di Nairobi, in Kenya, per poi rientrare in Italia per la riabilitazione e la convalescenza, precisamente a Schio in provincia di Vicenza, dove è nato l’1 ottobre 1977 e dove l’abbiamo incontrato in attesa del suo rientro in Sud Sudan. Don Christian Carlassare è stato ordinato sacerdote nel 2004 e dal 2005 è in missione in Sud Sudan; nominato vescovo di Rumbek da papa Francesco ad aprile 2021, pochi giorni dopo è stato vittima di un attentato, che lo ha lasciato ferito alle gambe da 4 colpi di pistola.



È guarito, don Christian?

Sì, mi son rimesso del tutto e sono in attesa di conoscere la data del mio ritorno in Africa, dove ora la diocesi di Rumbek è guidata da un amministratore apostolico, monsignor Matthew, vescovo di Wau.

L’attendono?

Sì, anche perché non hanno un vescovo dal 2011, dopo la morte del grande Cesare Mazzolari, comboniano e bresciano, una figura profetica, che ha dato la vita per la sua diocesi, riuscendo a unire evangelizzazione e sviluppo umano, attraverso la pastorale ecclesiale, l’istruzione, la scolarizzazione, le cure sanitarie garantite dalla realizzazione di tanti dispensari. Tra l’altro, in tempo di guerra, la diocesi ha sostenuto la popolazione attraverso la distribuzione di alimenti e risorse finanziarie. Perciò, l’attesa di un nuovo vescovo durava da 10 anni.

Ma era attesa anche la sua nomina?

No. Da diversi anni il Vaticano lavorava per individuare il nuovo vescovo e, perciò, nella chiesa locale c’era una forte attesa, ma la mia nomina è stata una sorpresa.

Com’è nata la sua vocazione sacerdotale?

La vocazione è un dono e, quindi, è difficile dire quando sia iniziata; però, penso che tutto sia incominciato perché sono nato in una famiglia cristiana, praticante, nella quale già c’era uno zio sacerdote, missionario in Ecuador, appartenente ai padri Giuseppini del Murialdo. Lui è stato un modello per me, perché è un uomo realizzato, donato agli altri nel Signore, perciò una persona da imitare. Nel contempo, sono cresciuto in parrocchia, dapprima come chierichetto, poi nei gruppi giovanili; da noi era forte l’Azione cattolica, ma mi sono confrontato con diverse realtà, tra le quali i Comboniani.

E la classica crisi dell’adolescenza?

Non mi ha portato fuori dalla Chiesa, perché ho fatto l’esperienza di vivere la fede con impegno, una fede che ha riguardato la vita e le scelte quotidiane. Così, nell’adolescenza, come studente delle superiori, mi sono interrogato su quale fosse il mio posto nel mondo, nella Chiesa e ho ritrovato me stesso negli esempi di servizio ecclesiale e al popolo reso da alcuni sacerdoti; ho desiderato seguire il loro esempio. E quando ho incontrato i missionari Comboniani, all’inizio degli anni 90, mi sono ritrovato in questi sacerdoti missionari.

Ha avuto qualche esempio particolarmente significativo?

La persona che per prima mi ha avvicinato ai Comboniani è stato padre Egidio Ferracin, missionario di Marano Vicentino, morto martire nel 1987 in Uganda. Era una figura affascinante, radicale nell’esperienza di fede, molto serena e gioiosa, aperta all’incontro con le persone. Pur non avendolo conosciuto di persona, l’ho sentito molto vicino, anche perché i suoi parenti abitavano vicino al mio paese, sua sorella era nostra vicina di casa. La testimonianza di padre Ferracin mi ha molto colpito.

Così, lei è entrato nei Comboniani.

Avevano una casa a Thiene, vicino a Schio, e aiutavano i giovani a diventare missionari in ogni contesto. Nel 1994 ho iniziato a vivere nella Comunità comboniana di Thiene, poi ho proseguito il percorso verso il sacerdozio nel seminario di Firenze, successivamente a Venegono Superiore, in provincia di Varese, e infine a Roma per gli studi di teologia.

Da chi è stato consacrato sacerdote?

Da monsignor Flavio Roberto Carraro, vescovo cappuccino di Verona, il 4 settembre 2004 e sono stato subito destinato al Sud Sudan.

Ma quali legami aveva con quel Paese africano?

“Mi sono avvicinato al Sud Sudan attraverso la testimonianza di alcuni missionari conosciuti nel mio percorso, per l’esempio dato dai Comboniani di vicinanza alla gente sudanese, d’impegno per la pace, per la riconciliazione. Del resto, il Sud Sudan è un po’ il cuore della missione dei Comboniani.

C’è anche un’altra figura nel suo avvicinamento al Sudan?

Sì, la figura bellissima di santa Giuseppina Bakhita, che a Schio, nel mio paese, apparteneva all’ordine delle Canossiane. Ho vissuto un po’  all’ombra della santa, che è nata in nel Sudan. E, perciò, mi son sentito legato al popolo, desideroso di lavorare affinché questo popolo possa, accogliendo il Vangelo, vivere un processo di pacificazione che riconosca la dignità di ogni persona senza distinzione sociale, etnica o di genere.

Cosa ha trovato al suo arrivo in Sudan?

Una popolazione provata dal conflitto con il Nord Sudan, iniziato subito dopo la fine del colonialismo nel 1956 e durato sino al 2005, quando sono arrivato in quella terra. L’accordo di pace firmato nel 2005 dalle due parti ha generato una grande speranza e un forte stimolo a ricostruire il Paese, portando così all’indipendenza nel 2011.

Di cosa si è occupato in Sud Sudan?

La mia prima missione è stata tra la popolazione Nuer, che vive molto lontana dalle città, in una zona rurale di prima evangelizzazione. Ho trovato una chiesa molto unita, seppur piccola, fondata sulle comunità cristiane di base e sulle famiglie. Perciò, l’attività pastorale si svolge con la popolazione, nelle comunità, valorizzando le famiglie e i laici. Anche perché una parrocchia è vasta quanto una regione italiana e ha 80 o 90 comunità cristiane. Perciò, il parroco viaggia continuamente di comunità in comunità, spostandosi a piedi, perché non ci sono strade. Quindi, sono molto importanti gli agenti pastorali laici, i catechisti, le donne, i giovani, la cui formazione è curata dai sacerdoti.

I Comboniani sono molto attenti ai giovani.

In Sud Sudan la grande maggioranza di chi frequenta la chiesa è giovane. Se metà della popolazione Nuer ha meno di 24 anni, l’età media di chi frequenta la chiesa è di 15-16 anni. Perciò, un altro importante impegno dei Comboniani è stato garantire le scuole, che sono gestite dalle comunità cristiane, con il risultato di abbattere significativamente l’analfabetismo che superava il 92%.

Cosa rimane della grande speranza nata con l’indipendenza del Sud Sudan nel 2011?

La speranza è ancora viva, anche se il conflitto per il controllo delle risorse è riesploso nel 2013, assumendo caratterizzazioni etniche e tribali, protraendosi sino al 2019, quando è stata firmata la pace, anche per merito della Santa Sede e di papa Francesco che ha riunito in Vaticano i leader sudanesi. Ora in Sud Sudan c’è un governo di unità nazionale, che coinvolge anche l’opposizione, ma restano alcuni gruppi armati; perciò, la pace non ha ancora raggiunto la popolazione, che soffre per la povertà e l’insicurezza. Su 13 milioni di abitanti, ben 2 milioni sono sfollati in Uganda, Kenya, Etiopia e Sudan, altri 2 milioni di sfollati interni e 900 mila vivono nei campi profughi dell’Onu.

Mi sembra proprio pronto per ritornare in Sud Sudan.

Sì, sono in trepidante attesa. Le mie radici sono qui in Italia, ma il mio cuore è ormai in Africa, dove sono atteso dai cristiani di Rumbek che, in maggioranza, sono di etnia Denka.

Quale augurio ci lascia?

Vi auguro un Natale di pace nelle famiglie, di riconciliazione dove c’è qualche discordia. Nella logica del mondo tutti vogliono crescere, passare sempre a un grado superiore; ogni bambino vuole diventare uomo, ogni uomo vuol diventare re, ogni re vuol essere dio. Invece, nel Natale celebriamo un Dio che vuole essere bambino, uomo con noi. Auguro che nell’abbassamento di Dio, anche noi possiamo farci servi del cammino di salvezza. Rimaniamo uniti nella preghiera, perché la pace è solo un dono che viene da Dio.

(Flavio Zeni) 

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