Se volessimo tentare una definizione del Natale che sia breve e che soprattutto possa essere compresa da tutti, compreso chi non ha alcun afflato religioso, potremmo dire che il Natale è la “festa della casa”. Non soltanto perché il vecchio (e un po’ stantio, a dire il vero…) proverbio proclama la necessità del “Natale con i tuoi”; non solo perché i timori pandemici e le restrizioni alla mobilità (attuali o previste) hanno spinto non pochi responsabili della cosa pubblica a prescrivere, proporre, chiedere anche in modo accorato ai cittadini di vivere questa ricorrenza in un ambito casalingo e strettamente familiare; non solo perché molto del marketing natalizio ha cavalcato gli umori del pubblico puntando su acquisti che rendano la casa sempre più quel “nido caldo” nel quale sentirsi protetti dai rischi esterni (e non solo di carattere epidemiologico). Il legame del Natale con la “casa” è ben più nobile e profondo, ed è capace di unire sia le domande e le attese più stringenti ed essenziali (ancorché talvolta inconsapevoli) di ogni cuore umano e pulsante, sia la realtà e la ragione profonda di ciò o, meglio, di Chi accade a Natale.
La “casa”, infatti, ben sappiamo che è assai più di un semplice manufatto funzionale all’esigenza di un’abitazione e anche del luogo nel quale custodire la giusta privacy richiesta dallo svolgimento ordinato della vita familiare: è quello che la sapienza umana e cristiana definisce come la “dimora”, parola che ha in sé il senso del trascorrere del tempo, del radicarsi di un’esperienza di prossimità, dello stabilirsi di un ambiente che contribuisca a far emergere in tutta la loro potenza e serietà le domande essenziali della vita, prima fra tutte l’esigenza di amare ed essere amati.
Ma, soprattutto, la casa è il luogo delle relazioni più profonde, quelle in virtù delle quali ci costituiamo come esseri umani capaci di una vera libertà, che è sempre accoglimento delle relazioni come fattore ineliminabile della propria identità, e non come temuto ambito di un possibile attentato alla mia indipendenza, e quindi dimensione da asservire a sé oppure da fuggire e rifiutare recisamente. E dunque casa è anche la compagnia degli amici, la Chiesa (nelle sue varie articolazioni), ogni realtà in cui sperimento tutta la forza costruttiva di bene dell’unità di intenti.
Ma come possiamo pensare di costruire davvero una casa? Lo scenario che abbiamo davanti agli occhi ci mostra infatti che anche i luoghi più promettenti nel candidarsi a questo titolo possono diventare asfittici e promotori di asservimento (magari anche alle proprie voglie incontrollate e alle proprie ferite mai guardate): le dimore familiari, quando vengono distrutte e svuotate di reale familiarità; i gruppi di amici dove l’impegno si annacqua o nella futilità di condivisione del nulla o, forse peggio, nell’ansia di autoaffermazione (che può essere anche di gruppo); perfino le diverse forme di aggregazione ecclesiale, che possono diventare ricettacoli di pretese identitarie, di desideri di primazialità fine a se stessa, di autoreferenzialità sempre un po’ astiosa o coltivatrice di sterili vittimismi, e dove Cristo diventa un’immagine autoprodotta sempre più sbiadita e lontana dall’esperienza di una Presenza.
E l’elenco potrebbe a lungo continuare, nel mettere in evidenza la nostra capacità di “per-vertire” (nel senso latino di stravolgere, falsificare, volgere a un fine estraneo) anche questo desiderio così essenziale come quello di avere un luogo che veramente ci permetta di “posare il capo”. E da questa constatazione è lì pronto a balzare fuori, come una iena, uno sciacallo o un’altra bestia divoratrice di carogne, il cinismo disperato e disperante di chi rinuncia perfino a desiderarla, una casa vera.
La risposta a questa eventualità tremenda, lo capiamo bene, non viene da noi. Già nell’Antico Testamento, a Davide, che – dopo essersi costruito un palazzo riccamente decorato – si accorgeva finalmente che l’Arca dell’Alleanza ancora stava sotto una tenda e pensava di costruire un tempio sontuoso per sfuggire all’ira divina, il Signore rispose per mezzo del profeta Natan: “Forse tu mi costruirai una casa, perché io vi abiti? Io ti presi dai pascoli, mentre seguivi il gregge, perché tu fossi il capo d’Israele mio popolo… Te poi il Signore farà grande, poiché una casa farà a te il Signore”. Splendida risposta divina al tardivo scrupolo del re: non tu mi costruirai una casa, ma io, il Signore, farò a te una casa! Perché ti conosco fin da quando, giovinetto, eri pastore per conto di tuo padre, e so bene di quale casa hai veramente bisogno!
Ma questa promessa a Davide si compie proprio a Natale, quando – come dice il vangelo di Giovanni, e come migliaia di volte noi stessi abbiamo ripetuto pregando l’Angelus – “il Verbo si è fatto carne e abita in mezzo a noi”. Si tratta di tutt’altro che una formula imparata a memoria e che troppo facilmente crediamo di aver compreso. Nell’originale greco si usa un verbo – eskenosen – che letteralmente significa “accamparsi”, “attendarsi” e, per estensione, “abitare”. Ma dobbiamo ricordare che nel contesto ebraico la tenda era l’abitazione normale nell’epoca dei patriarchi, durante l’esodo dall’Egitto e al momento dell’Alleanza con Dio al monte Sinai, e dunque l’“attendarsi” del Verbo di Dio tra gli uomini, con la nascita di Cristo a Betlemme, vuole esplicitamente richiamarsi al momento sorgivo dell’identità del popolo d’Israele e a quella “nascita dell’Io” che accade con la chiamata ad Abramo, che da abitante di una città diventa nomade proprio per ascoltare la voce di Dio.
Ecco dunque perché tutte le nostre case – pur con le loro molte povertà e riduzioni – non sono né possono essere un’obiezione alla possibilità di avere in dono una dimora da Dio proprio grazie alla nascita di Cristo: una dimora reale, una “casa” nella quale le paure e le pochezze non sono vinte dalla nostra pretesa di controllare tutto, ma piuttosto dalla certezza che Uno viene a cercarci – forse perfino a “stanarci” – per “fare casa” con noi e noi con Lui.
Ma c’è ancora un passo da fare: ancora troppo poco sarebbe fermarsi a questa sorpresa di Dio.
Nella lettera agli Ebrei, al densissimo capitolo 3, leggiamo queste parole: “Perciò, fratelli santi, partecipi di una vocazione celeste, fissate bene lo sguardo in Gesù, l’apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo, il quale è fedele a colui che l’ha costituito, come lo fu anche Mosè in tutta la sua casa. Ma in confronto a Mosè, egli è stato giudicato degno di tanta maggior gloria, quanto l’onore del costruttore della casa supera quello della casa stessa. Ogni casa infatti viene costruita da qualcuno; ma colui che ha costruito tutto è Dio. In verità Mosè fu fedele in tutta la sua casa come servitore, per rendere testimonianza di ciò che doveva essere annunziato più tardi; Cristo, invece, lo fu come figlio costituito sopra la sua propria casa. E la sua casa siamo noi, se conserviamo la libertà e la speranza di cui ci vantiamo”.
“Fissare lo sguardo in Gesù”: è esattamente quello che siamo chiamati a fare a Natale, ogni volta che – da soli o con i nostri figli – ci mettiamo a guardare il presepio. Ma questo sguardo non può essere unicamente nutrito dal sentimentalismo. Se infatti Mosè, la guida che condusse il popolo fino alla stipula dell’alleanza con Dio, viene riconosciuto come “servitore” nella casa costruita da Dio, Cristo è il Figlio che risulta fedele perché è costituito sulla sua propria casa. E la lettera agli Ebrei non si limita a proclamare questa superiorità del Figlio su Mosè, ma arriva a fare un’affermazione inaudita: “…la sua casa siamo noi, se conserviamo la libertà e la speranza di cui ci vantiamo”. Ecco cosa significa fissare lo sguardo in Gesù: riconoscerne tutta l’unicità, riconoscerGli la piena capacità di sostenere ogni nostro desiderio di una casa, senza confondere con la Sua guida tutti quelli che – come servitori – pure ci hanno aiutato attraverso il loro servizio fedele a riconoscerLo presente.
Questa chiarezza – che non toglie nulla ad alcuno, ma nello stesso tempo vede con chiarezza e in tutta la sua portata la realtà operante della presenza di Cristo – ha uno scopo: permettere al Figlio di Dio non solo di essere il costruttore della nostra casa, ma di abitare Egli stesso in noi, che siamo da Lui chiamati ad essere la “Sua” casa! Ciò ha però una condizione indispensabile: conservare la libertà e la speranza di cui ci vantiamo. In altre parole: conservare la libertà con la quale siamo stati resi liberi, e dunque la piena dipendenza da Cristo, così come si manifesta attraverso la Sua casa, la Chiesa, della quale noi stessi siamo chiamati ad essere pietre vive; e mantenere la speranza di cui ci vantiamo, ovvero – come afferma san Paolo – la speranza che nasce dalla Croce di Cristo, unico nostro vero e possibile vanto, perché manifesta la vittoria di Dio su ogni pretesa di auto affermazione e di orgoglio vuoto e illusorio.
Non meno di questo ci viene proposto di vivere in questo Natale. Di nulla che sia meno di questo abbiamo bisogno, se non vogliamo perdere la casa – la Chiesa nelle sue diverse espressioni – che ci è stata donata come vera comunità umana. Come affermava Vladimir Solov’ev nella sua opera I fondamenti spirituali della vita, “per la giusta reciproca relazione tra tutti gli uomini… è necessario che a fondamento dell’organismo sociale non ci sia nessun arbitrio umano, ma ciò si ottiene solo nell’organizzazione gerarchica della Chiesa dove ognuno dei suoi membri ha il suo posto e compie la sua missione non a nome proprio, ma a nome di chi lo manda, e tutta questa organizzazione conduce direttamente alla fonte di ogni giustizia, a Cristo, all’unico vero (autentico) Sommo Sacerdote e Re”. Poiché – e ci è sommamente utile non dimenticarlo – quel bimbo che contempliamo nel presepe è il Re dei Re e il Signore dei Signori, e insieme lo Sposo amatissimo della Chiesa. Nulla di meno ci porti il Natale di Cristo. Ce lo auguriamo di cuore.
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