“A Natale Dio entra nella nostra storia, ma lo fa in un modo da chiederci di cercarlo”, dice al Sussidiario il cardinale Sean Patrick O’Malley, arcivescovo di Boston. E una molla potente è proprio quello che vorremmo fare sparire al più presto dalla nostra vita, quel morbo che soltanto negli Stati Uniti ha provocato la morte di 331mila persone. Il Covid ci aiuta a ricordare “ciò che è realmente importante nella nostra vita”, a purificare lo sguardo e il cuore su ciò che accade oggi: “questo dono, che è Lui stesso – dice O’Malley – è quello che permette di cambiare la nostra vita, di trovarne il senso, di trovare la felicità e la salvezza”.



Natale è Dio con noi. Che cosa accade nel senso vero del termine, che possiamo vedere e toccare oggi, che non sia già accaduto duemila anni fa?

L’intera storia della salvezza è Dio che si rivela a noi. A Natale Dio entra nella nostra storia, ma lo fa in un modo da chiederci di cercarlo: il Natale ci ridà l’opportunità di voler ancora riscoprire che Dio è con noi.



E perché questa volontà si è si è smarrita?

Perché, sfortunatamente, buona parte di ciò che il Natale è diventato è commerciale, di fantasia e, soprattutto, la nostra cultura secolarizzata tende a impadronirsi delle celebrazioni religiose svuotandole del loro significato religioso, sostituendolo con illusioni e frivolezze. Questo è ciò che avviene con il Natale: Santa Klaus, l’Uomo di Paglia, incredibili somme di denaro spese in feste e regali. Il significato di Dio che è con noi, vicino a noi, è spesso svuotato.

Che cosa può aiutarci a recuperarlo?

Penso che uno dei vantaggi della pandemia sia di costringerci a guardare a ciò che è realmente importante nella nostra vita.



Il Covid non ci da tregua. Che cosa chiede alle nostre vite, alla nostra fede?

Ci spinge a considerare ciò che è realmente importante e non limitarci alle decorazioni, agli acquisti, a tutto ciò che commercializza il Natale. Vi sono molte altre cose realmente importanti, come la nostra fede, la nostra famiglia, i nostri amici, la nostra salute, il nostro lavoro, e tutto ciò è veramente essenziale.

Secondo lei che cosa ci ha portato ancora il Covid-19?

Penso che ci abbia costretti a renderci conto che le nostre vite sono interconnesse. Nella nostra cultura americana tendiamo a essere molto individualisti, ma la pandemia ci costringe a vedere quanto siamo connessi con gli altri, di come abbiamo bisogno uno dell’altro. L’enciclica Fratelli tutti ci dà la visione di un mondo post-pandemia dove le persone sono più coscienti di essere in relazione vicendevole e di essere chiamate, come fratelli e sorelle, a prendersi cura le une delle altre e del pianeta, e di fare ciò insieme. La pandemia ha posto in evidenza anche tutte le ingiustizie che esistono nella nostra società, il razzismo, l’indifferenza per i poveri, le enormi differenze tra i Paesi ricchi e quelli sottosviluppati.

Quali parole direbbe, invece, qui, ora, a chi non crede ed ha perduto i propri cari?

Penso che una delle cose che noi, come cristiani, dobbiamo fare è testimoniare la speranza che noi abbiamo nell’amore di Dio e il fatto che, a Natale, il nostro Dio viene presso di noi, si rivela nelle sembianze di un bambino, perché il Suo amore è sempre presente, non smette mai di amarci e di chiamarci a una nuova vita. Pietro dice che noi dobbiamo dare ragione agli altri della speranza che è in noi; Martin Luther King dice che “la vita è una virgola, non un punto al termine di una frase”. Per Giovanni Paolo II la morte era passare da una stanza all’altra.

Perché dice questo?

Ma perché quando una persona ha fede nella Resurrezione, la morte acquista un significato completamente differente. Il nostro compito come cristiani è di essere testimoni della Resurrezione, nel modo in cui viviamo, in cui ci comportiamo tra noi, nel come ci aiutiamo tra di noi. Nella storia della Chiesa, l’evangelizzazione è fatta dall’annuncio, ma anche dal vivere intensamente una vita di comunità, dove le persone possono scoprire la presenza di Gesù Cristo nella fraternità dei credenti.

Tra pandemia, lacerazione politica e social unrest gli Stati Uniti si sono trovato a vivere un anno feroce. Come ha risposto la Chiesa a tutto questo?

Penso che la Chiesa abbia risposto a diversi livelli. Innanzitutto, cercando di prendersi cura dei bisogni concreti delle persone, assicurando che vi fossero cibo, medicine, assistenza, continuando il ministero anche quando le chiese dovevano rimanere chiuse. Qui a Boston è stato sorprendente come i preti siano riusciti, malgrado ciò, a mantenere i contatti con la loro comunità, via telefono, messaggi, internet, cercando di visitare chi era solo. Quando ci è stato permesso di accedere agli ospedali, abbiamo creato gruppi di persone preparate per portare i sacramenti a chi stava morendo in isolamento, e molte altre cose per rispondere ai bisogni creati dalla crisi.

La pandemia tra le tante cose ha messo in luce gli aspetti contraddittori del concetto di libertà: negli Usa, ancor meno che in Europa, nessuno può imporre ad altri come comportarsi, dal mettere la mascherina allo stare in casa. Cosa ne pensa?

Nella cultura americana, dove la libertà individuale è il valore più rilevante, alla gente non piace che le si dica cosa deve fare, dove andare, come comportarsi, perciò vi sono state reazioni comprensibili verso queste prescrizioni. Tuttavia, al cuore della dottrina sociale cattolica c’è il vangelo della vita, la vita come il dono più prezioso, un dono che noi dobbiamo proteggere.

In concreto?

Dobbiamo sempre lavorare insieme per il bene comune e se si ha a cuore il bene comune occorre essere preparati a fare quei sacrifici che vengono imposti per proteggere altre persone, in particolari quelle più vulnerabili.

Alle ultime elezioni ancora una volta buona parte della polarizzazione politica e delle ragioni del voto si sono incentrate sull’aborto. Qual è la sua opinione in proposito?

Ho già detto del vangelo della vita. Nella dottrina sociale cattolica vi è molto per contribuire a risanare un mondo ferito e per una visione più umana del mondo post pandemia. La Chiesa cattolica ha un insegnamento sociale molto coerente, basato sull’insegnamento di Gesù Cristo, ma anche sulla ragione umana. Quando prendiamo posizione sull’aborto, l’eutanasia, la pena capitale, la guerra giusta, non stiamo imponendo alle persone la nostra fede cattolica, ma ci atteniamo a diritti umani resi più chiari per noi dalla fede. È nostro compito riconoscere la dignità di ogni persona e quindi la responsabilità che governi e individui devono avere nei confronti delle persone vulnerabili e dei poveri.

Lei è sempre stato sensibile e direttamente coinvolto sul tema dell’immigrazione, uno de più controversi dell’ultima campagna elettorale. Quale è il suo messaggio?

Parte del messaggio di Natale è che dobbiamo aprire i nostri cuori per ricevere Cristo, gli stranieri e i migranti. Anche la Sacra Famiglia dovette fuggire in Egitto di fronte alla persecuzione e dobbiamo ricordare quanto detto da Gesù: avevo fame e mi avete dato da mangiare, ero straniero e mi avete accolto. Il Natale è il momento in cui riflettere su come stiamo servendo Cristo nei poveri, i senzatetto, gli stranieri.

“Ogni cristiano è chiamato a diventare, nelle mani di Dio, pane spezzato e condiviso” ha detto papa Francesco nella sua ultima udienza. E ancora: “Nella Chiesa, chi conosce la tristezza o la gioia dell’altro va più in profondità di chi indaga i massimi sistemi”. Che cosa ci chiede?

Ci sfida a superare l’egoismo e cercare strade per vivere la nostra missione nel mondo, glorificare Dio, rendere la misericordia presente, mettendo i nostri talenti al servizio degli altri. Dio che a Natale viene in mezzo a noi è il dono più grande. Sono rimasto addolorato leggendo sul New York Times che sono stati spesi 16 miliardi di dollari negli Stati Uniti per regali di Natale non richiesti. E ho l’impressione che per molti il Bambin Gesù sia un altro regalo non richiesto, ma questo dono, che è Lui stesso, è quello che permette di cambiare la nostra vita, di trovarne il senso, di trovare la felicità e la salvezza.