Il tema natalizio è stato uno dei fuochi principali di alimentazione della pietà cristiana di ogni tempo. L’ostensione del frutto scaturito dalla prodigiosa maternità di Maria esalta il realismo della fede più semplice e viva: l’incarnazione del Figlio di Dio ricongiunge il cielo e la terra, oltrepassando le barriere di separazione che renderebbero altrimenti inaccessibile il mistero nascosto negli abissi del sacro. Nel punto in cui l’infinito del totalmente Altro e l’umile accoglienza del suo manifestarsi vengono a incrociarsi in uno straordinario connubio, si accende la sinfonia di una nuova storia di alleanza.



Lo si vede molto bene nelle Natività del primo Cinquecento, potenziate nella loro intensità espressiva dagli sviluppi dell’arte rinascimentale. Tre di queste sono riunite in una bella mostra, da poco inaugurata a Lecco e che resterà aperta per tutti i mesi invernali: Storie salvate. Tre Natività del Cinquecento da riscoprire (Palazzo delle Paure, 5 dicembre 2021-5 marzo 2022).



La più antica ed elegante è una pala d’altare solo da pochissimi anni riconosciuta opera di Andrea Previtali (anni intorno al 1520). Proviene dal contesto bergamasco, ed è rimasta a lungo sconosciuta anche perché trasferita in tutt’altro ambito territoriale e finita, attraverso i meccanismi delle donazioni aristocratiche, in un santuario mariano dell’hinterland milanese: precisamente ad Arconate. Diversamente da altre opere sul tema natalizio del pittore lombardo, qui l’attenzione si concentra sullo scambio amoroso degli affetti nella triade della Sacra Famiglia, stretta intorno al Bambino divino, senza coinvolgere gli altri abituali protagonisti dei racconti tramandati in merito alla nascita e ai primi momenti dell’esistenza di Gesù. Ma lo sfondo su cui si staglia la scena di intimità domestica non tralascia di chiamare in causa in modo diretto il soprannaturale: tre angeli, ordinatamente disposti a triangolo, incorniciano i corpi dei santi genitori piegati sulla loro sublime creatura, e uno di questi angeli irrompe con le braccia raccolte nel gesto della preghiera planando in volo da un cielo di cui si intravedono scampoli lontani nel paesaggio rappresentato nella zona superiore del dipinto.



Anche nella seconda opera esposta in mostra (Adorazione dei pastori, di pittore veneto, forse Jacopo Bassano, 1535 circa), una scia luminosa, paragonabile a una specie di stella cometa, collega un astro che si affaccia timido nel cielo di Betlemme con i due atletici pastori di foggia michelangiolesca, che si protendono adoranti, a piedi scalzi, verso il Bambino deposto su una culla di fortuna, ricavata dai frammenti di colonna di un antico edificio in rovina.

Ancora più vistosamente, l’interscambio tra l’universo divino sovrastante dall’alto e la polverosa realtà terrestre da redimere è messo in evidenza nel dipinto che chiude la rassegna di Lecco: si tratta di un’altra Adorazione dei pastori, opera del grande Giovan Battista Moroni, con la quale ci si spinge fino agli anni intorno al 1555. In questa versione, il cielo occupa una porzione rilevante della scena, riflettendosi nei colori di un paesaggio aperto verso un orizzonte luminoso, e su di esso si disegna lo sfolgorante corteo di creature angeliche immaginate come giovinette che procedono quasi a passo di danza, abbassandosi, tra volute di nuvole, in direzione del luogo dove è stato messo al mondo il Salvatore.

Non sono però casuali le scelte adottate per raffigurare lo scenario che ha visto il compiersi vertiginoso delle profezie dell’antico Israele, così stupefacente da suscitare la trepida ammirazione degli esseri spirituali posti come cerniera di comunicazione tra il mondo di lassù e il mondo di quaggiù, sentinelle di pronto intervento che mettono in moto, con il loro richiamo, la devota curiosità degli oscuri abitanti della terra di Palestina, più tardi imitati dai Magi venuti da Oriente.

Il paesaggio delle Natività del Cinquecento non è quello delle grotte dei pastori che ai giorni nostri visitano i pellegrini di Terrasanta. Non è neanche lo scenario puro e semplice del “praesepe” (recinto per il bestiame, stalla, o anche soltanto mangiatoia) evocato dal vangelo di Luca (2,7). Il teatro che ha ospitato la discesa del Figlio di Dio nella carne della realtà umana si dilata, piuttosto, nelle forme di uno spazio altamente simbolico: è ritagliato incuneandosi tra i lacerti residui della grande civiltà pagana del mondo antico, tra archi, colonne e murature ormai in disuso, scoperchiati e offerti magari all’offensiva di piante infestanti che si arrampicano dove un tempo troneggiavano le insegne di una umanità ancora estranea alla luce della rivelazione suprema.

Nella pala di Previtali, il Bambino non è deposto sull’umile terra, e nemmeno adagiato nella paglia di una greppia per animali: se ne sta regalmente collocato su un cuscino, sopra un piedistallo decorato che, nello stesso momento in cui rinvia al culto in onore di san Giuseppe, potrebbe alludere anche a un altare per le offerte sacrificali un tempo rivolte alle divinità di un Pantheon ormai disgregato nelle sue strutture di supporto. Pure nell’Adorazione riconducibile a Bassano, sono spezzoni di colonne demolite a sostenere il corpicino del nuovo Adamo, introdottosi nella catena delle generazioni per portare i fratelli uomini sulle sponde di una storia cambiata radicalmente di segno. I resti monumentali dell’architettura precristiana – muri spezzati, colonne divelte, forse una sepoltura ridotta a vuoto ricettacolo – fanno da sfondo, ugualmente, alla Natività di Moroni. Ed è sempre a queste rovine superstiti che si appoggiano pali, tettoie di umili materiali campestri e nuovi allestimenti finalizzati alle attività di lavoro dei poveri allevatori di bestiame che, nella finzione dell’arte, hanno preso il posto degli antichi rappresentanti di una civiltà decaduta, di cui si possono solo riscattare i preziosi tesori di sapienza trasmessi ai posteri insieme al cumulo degli errori compiuti e dei fallimenti.

Il presepe del Dio fatto uomo si fonda sul vertice raggiunto dal cammino degli uomini in ricerca, riorientandone drasticamente le prospettive. Il Dio incarnato si rende presente avanzando fra le pieghe della storia che lo ha preceduto, e così facendo inaugura un nuovo patto di amicizia che sorpassa, inglobandola e risignificandola dalle sue basi, la fragile costruzione di una civiltà ferma nello stadio dell’attesa, che non aveva ancora conosciuto il Verbo capace di dare pienezza di verità ai sogni e alle intuizioni del passato prima di Cristo.

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