Interessante l’incontro in Farmindustria che ha chiamato a confrontarsi tra loro istituzioni, associazioni, medici, sociologi per cercare di capire come affrontare insieme la questione denatalità insostenibile, denunciata più volte con dati di declino inarrestabile. Abbiamo pochi bambini e purtroppo la verità è che è ormai una realtà che possiamo e dobbiamo contrastare con cure, prevenzione, ma soprattutto con cultura, informazione, politiche di welfare e robuste iniezioni di progetti per il futuro perché la denatalità è già il problema più evidente che logora il patto sociale.
Dunque una drammatica realtà che rappresenta un fenomeno complesso che ha cause molteplici – condizioni economiche e di welfare ma non solo – e che in Italia ha toccato un picco negativo nel 2022 con 400 mila nati in meno e nel 2023 un calo ulteriore di 35 mila bambini. I maschi nel 2050 saranno meno fertili per il 50% rispetto a oggi anche per questioni ambientali, inquinamento, infezioni, malattie croniche e, soprattutto, resistenza culturale alla prevenzione.
Appunto il ministero della Salute ha istituito un tavolo tecnico, per proporre screening gratuiti per ragazze e giovani donne (per esempio, il dosaggio dell’ormone Amh che correla con la fertilità costa 60 euro al pubblico), oltre che per ragazzi in età da liceo. Enrica Giorgetti, Direttrice generale di Farmindustria avverte: le imprese si trovano al crocevia tra salute, prevenzione, welfare. La sostenibilità del sistema sanitario dipende anche dalla fertilità e la procreazione è legata a fattori biologici, medici ma non solo poiché in Italia si partorisce in media a 32 anni, mentre in Europa a 29.
Ma il problema medico non è solo delle donne: il lavoro e la sua organizzazione sono decisivi. La maternità è più diffusa dove il lavoro c’è ed è ben strutturato: nell’industria farmaceutica le donne possono fare carriera e avere anche tanti figli. E poi se la società invecchia è anche “colpa” dell’industria della salute: con i farmaci si vive di più, ma è tempo di contribuire a ringiovanire la società, con la responsabilità di un settore che guida la produzione e l’export del Paese. E significa puntare anche sul benessere dei lavoratori e delle lavoratrici perché produce risultati utili anche per i bilanci aziendali e dal periodo post-pandemico, e magari anche prima, il principale driver alla base delle scelte occupazionali delle persone non è più l’elemento meramente economico, che, pur rimanendo una delle preminenti leve strategiche di ingaggio, è oggi affiancato dall’esigenza di valorizzare la persona, il vero “capitale umano” e non più una mera “risorsa” e dunque molto più welfare per la coppia.
E vero è che i figli li mette al mondo chi sente il futuro: i nostri nonni e genitori avevano quest’idea. Oggi molto meno. Il problema è la felicità: la politica non può fare molto su questo, ma può fare altre cose. Per esempio, investire nel sociale, nella scuola. Servono aule, insegnanti, tempo pieno, pulmini gialli, serve molta educazione e meno playstation e fare figli significa anche educarli e anche questo lo abbiamo disimparato. Avere tempo per loro oltre che i servizi e posti di lavoro significa allora ribaltare il sistema di finanziamento del patto sociale. Oggi “quota 2”, che rappresenta il tasso di sostituzione demografica, è un miraggio. Eppure nelle donne il desiderio di maternità resta alto: solo il 2% dichiara di non avere i figli nel proprio progetto di vita. Da qui la necessità di realizzare le condizioni perché ciò avvenga. La bassa natalità rappresenta, infatti, un vero e proprio rischio per la tenuta del sistema sociale, dai rapporti intergenerazionali alla sostenibilità dei conti pubblici, ed è una minaccia per la vitalità della nostra società e la sua capacità di crescita.
Vediamo se oltre denunciare, chi fa che cosa.
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