1,2. Questo è l’ultimo dato Ocse relativo ai figli per donna in Italia, uno dei più bassi di tutta l’area Ocse e del mondo. Il Belpaese, infatti, supera solo la Sud Corea, che presenta un dato pari addirittura a 0,7 figli per donna, ed è penultima a pari merito con la Spagna. Il dato italiano conferma l’ormai perenne discesa demografica nella Penisola e l’acuirsi di una crisi che, senza interventi immediati ed efficaci, non potrà che acuirsi, fino ad arrivare al punto di non ritorno.
Il problema ha diverse origini, complesse e intersecate tra loro: c’è certamente un motivo culturale e morale e, insieme, una politicizzazione della famiglia (a destra come a sinistra) che ha trasformato uno dei temi “unificatori” per eccellenza in un terreno di scontro. Oltre a questo aspetto, che meriterebbe di essere approfondito, c’è anche una questione più contingente e legata all’economia e alle politiche familiari e di welfare.
Non solo, l’Ocse pone anche la questione del costo abitativo, un tema delicato quanto importante: in Italia è aumentata la percentuale di uomini che sceglie di rimanere nella casa di famiglia vivendo con i genitori piuttosto che uscire e avere a che fare con un costo di affitto insostenibile, o con mutui altrettanto difficili da estinguere (non aiutati, tra l’altro, da scelte della Bce che, restringendo la liquidità circolante, aumenta il costo dei mutui, aggravando quindi luna situazione già difficoltosa). Ma il problema non sono solamente i costi delle case, come accade ad esempio a Milano, ma anche il tema del lavoro povero: gli stipendi italiani non sono cresciuti per niente nel corso degli ultimi anni (tra il 1991 e il 2022 i salari reali in Italia sono rimasti sostanzialmente al palo con una crescita dell’1% a fronte del 32,5% in media registrato nell’area Ocse, Rapporto Inapp 2023) e, non essendo adeguati al sempre più alto costo della vita, impediscono ai giovani lavoratori di costruirsi un futuro. Il problema, quindi, non è solo quello della disoccupazione (altro grande tema che non si vuole certo sottovalutare), ma il fatto che anche chi è occupato non può permettersi di costruire un futuro.
Questa situazione, quindi, porta a tardare nel compiere scelte di vita, tra cui fondare una famiglia: tale ritardo a sua volta porta all’inasprirsi dell’inverno demografico.
Certo, non è solo questione delle abitazioni: i bassi salari rapportati al costo della vita portano al fenomeno dell’emigrazione, con perdita dal punto di vista demografico e produttivo, che viene solo in parte “riparato” dall’arrivo di migranti, che, come già altre volte analizzato, non possono però essere considerati come la soluzione al fenomeno di denatalità, come già l’evidenza sta dimostrando.
Oltre all’aspetto remunerativo ci sarebbe da discutere anche la questione delle politiche aziendali e di welfare, che ancora non sono favorevoli al nucleo familiare (tranne alcune felici eccezioni, come esposto ai recenti Stati Generali della Natalità), così come è sempre da citare la questione fiscale, nonostante il famoso quoziente familiare sembri rimanere una chimera.
In tutto ciò va rilevato l’allarme lanciato dal Comitato di indirizzo e vigilanza dell’Inps sull’effetto che l’invecchiamento della popolazione, unito al calo demografico, avranno sul bilancio dell’Inps: infatti, il bilancio patrimoniale “girerà nel corso di 10 anni in passivo, passando da +23 miliardi nel 2023 a -45 miliardi nel 2032, con dei risultati di esercizio negativi che peggiorano nel decennio da -3 miliardi a -20 miliardi” (Audizione Civ, 2023). Pur essendo dati tendenziali e conosciuti, è sicuramente un primo campanello d’allarme.
I dati parlano e dicono molto di più di quanto brevemente esposto: ora però è tempo di prendere decisioni e implementare politiche conseguenti. Basta guardare la Corea del Sud per conoscere l’alternativa.
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