Tutte le lacune, le carenze, il pressappochismo storico del passato prossimo, ma soprattutto la superficialità con cui è stata affrontata l’implosione dell’Unione Sovietica e il crollo del marxismo-leninismo nel 1989, stanno ritornano a galla in questi drammatici mesi dopo l’invasione della “nuova Russia” di Vladimir Putin contro l’Ucraina. Si può azzardare a dire che è quello il vero retroscena di una guerra che si aggrava giorno dopo giorno e di cui non si vede una via d’uscita.
Con la caduta del Muro di Berlino cambiava il mondo, che era stato certamente separato, spaccato in due tra Occidente e Oriente, per essere schematici. Quando ancora alla fine degli anni Settanta si prendeva a Berlino Ovest la metropolitana che ti portava a Berlino Est, rimanevi stupefatto dalla richiesta dei passaporti, dal cambio obbligatorio, in una piccola dogana della metropolitana, di marchi dell’Ovest con quelli dell’Est. E poi c’era sempre la sensazione di essere seguiti, vicino alla strada che confinava con il “bunker” del Führer, e infine l’imbarazzo delle persone che interpellavi per conoscere il nome una strada. Inoltre le spiegazioni complicate sullo stabile che aveva retto ai bombardamenti, il ministero dell’Aviazione, dove lavorava uno dei principali luogotenenti di Adolf Hitler, Hermann Goering.
In certi momenti ti sembrava di toccare con mano l’incubo della Guerra fredda, tanto che il discorso di Winston Churchill, fatto a Fulton in Missouri nel marzo del 1946, appariva attualissimo.
Si aggiunga a tutto questo il senso perverso di diffidenza, di un diffuso spionaggio impietoso che si respirava a Checkpoint Charlie, dove spie e informatori passavano da una parte all’altra o si scambiavano 24 ore su 24.
Infine la Porta di Brandeburgo, le case che confinavano tra un lato e l’altro, con le croci in ricordo dei caduti che scappavano da Est uccisi dai “Vopos” sulle sponde della Sprea. Nel carcere di Spandau era ancora rinchiuso Rudolf Hess, altro luogotenente del Fürher, che morirà nel 1987, due anni prima della Caduta del Muro.
Eppure, in quello che potevi chiamare il “cuore” della Guerra fredda, riuscivi ugualmente a coltivare speranze di miglioramento e, nonostante tutto quello che era avvenuto, dai giorni dell’Ungheria, della Cecoslovacchia, fino alla terribile crisi di Cuba, non sentivi l’incubo della guerra. Nemmeno nei giorni problematici della Polonia che si ribella al controllo sovietico.
Oggi, al contrario, nell’Europa del 2022, quando vedi in televisione un Paese che viene invaso, che ogni giorno ci sono migliaia di morti e che c’è una guerra che ha superato ormai i due mesi e mezzi di durata, la paura diventa reale.
In più, quando pensi a due paesi, noti storicamente per la loro neutralità assoluta, come Finlandia e Svezia, che chiedono di schierarsi (magari sollecitati), di entrare nella Nato, ti vengono i brividi alla schiena. E di conseguenza pensi anche al gioco del turco Erdogan, che si oppone all’ingresso dei due Paesi nordici e quindi incrina l’unanimità della Nato e chi di fatto la guida. Che cosa chiede Erdogan? Tutto appare come cinica confusione e interesse sopra tutto e sopra tutti.
A questo punto ti viene quasi nostalgia della Guerra fredda e pensi che tutti (compreso chi scrive) non abbia compreso nulla di questa grande svolta epocale che invece si doveva prevedere, come in passato è stato fatto più volte.
Il fatto è che una classe dirigente europea, in Stati allora divisi, nel periodo della Guerra fredda, si comportava con una puntualità di scelte e una capacità diplomatica che oggi sembra perduta o completamente dimenticata.
C’ era, e si può trovare ancora, quasi una sorta di “immaginetta” dei primi anni Sessanta che riunisce John Fitzgerald Kennedy, Nikita Kruscev, Papa Giovanni XXIII: tre uomini che, nonostante le loro posizioni differenti, apparivano come una garanzia di buonsenso e di pace. Il socialdemocratico Willy Brandt, un grande sindaco di Berlino che si oppose alle pressioni comuniste, divenne cancelliere tedesco nel 1969 e fu l’artefice della Ostpolitik, la politica di apertura verso Est, che si condivise in Occidente e vide un altro protagonista nel cardinale Agostino Casaroli.
La Ostpolitik valse un premio Nobel per la pace a Brandt nel 1971 e anche se quella linea durò poco nella sua ampiezza, lasciò una traccia che non fu mai del tutto cancellata. Rigorosamente l’Internazionale socialista, con Craxi, Palme, Mitterrand, Gonzales e altri seguirono questa linea che partiva dal dialogo con patti chiari e una deterrenza che si doveva rispettare.
Quando ad esempio ci fu la crisi dei missili, gli SS20 sovietici puntati sulle capitali europee, gli occidentali risposero con fermezza, riequilibrando la situazione, e spiazzarono sia i super-pacifisti filorussi che avevano come parola d’ordine “meglio rossi che morti”, sia quelli che volevano ridiscutere tutto per sconfessare una politica di disgelo costruttivo.
È incredibile che dalla politica di Ostpolitik, con i suoi vari tentativi, i suoi passi avanti e le sue pause, si sia passati al crollo di un ordine geopolitico generale senza fare una piega, senza pensare a un nuovo e autentico accordo generale, a una conferenza internazionale credibile, fidandosi solo dell’Onu che non riuscirà mai a limitare i rapporti di forza reali, con basi di diritto internazionale che sono quasi sempre, nella maggioranza dei casi, da riscrivere se non da reinventare.
Ma quello che fa ancora più impressione è che nessuno ha guardato al senso della storia che ha attraversato il Novecento. La caduta del comunismo non è stata solo l’implosione dell’Urss, ma il crollo di un impero basato su un’ideologia che aveva ridisegnato il marxismo in chiave leninista, che ha avuto un’attrazione mondiale che non è affatto semplice da sradicare e che è difficile coniugare con un passato che risale a Caterina II o qualche cosa d’altro, ogni giorno in modo più confuso. Tutto questo, in più, è avvenuto attraverso due guerre mondiali che a uno storico come Ernst Nolte sono apparse come una lunga guerra civile europea, dal 1917 al 1945.
Come è possibile che la nuova classe dirigente occidentale, sia quella europea che americana – quella che si è affacciata, quasi allegramente, all’ombra del mercato più libero che mai –, nel XXI secolo abbia pensato che la memoria potesse cancellare tutto di colpo, e che dei problemi secolari si risolvessero da soli?
E nello stesso tempo, come è possibile che, nel momento della disgregazione del proprio impero dittatoriale e ideologico, nessuno abbia avuto l’esigenza di un profondo rinnovamento e di un ripensamento che non si fermasse solo all’emersione di oligarchi che girano il mondo? Forse bastava rileggersi il “rapporto segreto” del XX congresso del Pcus e le deliberazioni conclusive del 22esimo congresso dello stesso partito.
D’altro canto, i principi che muovevano l’Ostpolitik e poi la Guerra fredda”, vissuta comunque con una convivenza sotto controllo, con un famoso “telefono rosso” che collegava Washington con Mosca, la Casa Bianca con il Cremlino, si basavano sulla realtà, la concretezza, la necessità di uno sviluppo il più possibile equilibrato e l’attività di una diplomazia sempre in movimento, sempre sollecitata dai rispettivi governi. Era la base di un riformismo e di un revisionismo che tutelavano società differenti e magari le mutavano lentamente e razionalmente.
La rimozione di questo spirito di ricerca sia a Occidente, ma soprattutto in questo caso specifico a Oriente, ha fatto precipitare tutto. Si è smesso di individuare nuovi principi, si è smesso di pensare e guardare attentamente la realtà. Quando ci si comporta in questo modo, prima si fa un tuffo consolatorio nell’ideologia e poi ci si trova in guai sempre più seri e drammatici. È questo il momento che viviamo.