L’opposizione, in Russia, è stata espulsa dal sistema. Priva di diritti, priva di agibilità, priva di sostentamenti. Soprattutto l’opposizione “esterna” al sistema, la cui consistenza è stata monitorata occhiutamente dall’amministrazione presidenziale e rinchiusa in barriere sempre più alte, impedendole di tessere alleanze e condividere progetti.
Ora che Aleksej Navalny non c’è più, la Federazione Russa è ancor più determinata a mettere fuori chiunque abbia avuto relazioni dirette con lui e le voglia mantenere con la sua organizzazione. L’accusa è quella di “estremismo” e un disegno di legge già approvato in prima lettura dalla Duma di Stato vieta di candidarsi e candidare al parlamento chiunque abbia lavorato o sostenuto un’organizzazione classificata come “estremista”. Le persone che si sono registrate sul sito web di una manifestazione a sostegno di Navalny vengono punite con il licenziamento se il loro datore di lavoro opera nel settore statale, indipendentemente dal fatto che abbiano effettivamente preso parte alla manifestazione.
Qualsiasi forma di politica che non sia controllata o ammessa dal Cremlino attira l’attenzione dei siloviki (servizi di sicurezza) e viene bandita con un sistema di barriere d’accesso insuperabile, a partire dalla semplicissima contestazione delle firme raccolte a sostegno di un candidato. L’unica politica ammessa è il sostegno convinto al Cremlino.
In questo contesto la domanda “chi ha ucciso Navalny”, ovvero “di cosa è morto Navalny”, assume il senso di uno spudorato non-senso.
Da qualsiasi punto di vista la si voglia prendere, l’intera parabola umana e politica di Navalny è figlia diretta di una incomprensibile attitudine del Cremlino ad usare la forza e l’ostracismo anche quando non serve. Navalny ho dimostrato che eroi si diventa; il Cremlino che repressori si nasce. lo Stato russo ha deciso di combattere l’estremismo utilizzando il metodo più semplice: la forza bruta. In precedenza, l’etichetta di estremismo veniva, di regola, applicata a coloro che cercavano davvero di prendere il potere con la forza, come il Partito Nazionale Bolscevico di Éduard Limonov. Allo stesso tempo, i membri di tali organizzazioni non erano ufficialmente banditi dalla politica: chiunque lo desiderasse poteva provare a candidarsi, anche se, ovviamente, una serie di ostacoli gli avrebbero impedito di registrare la propria candidatura. A Navalny è stato attribuito qualsivoglia crimine politico benché egli non abbia mai neppure preteso di prendere il potere o di rovesciare l’esistente.
L’ opposizione “dal di fuori” del sistema è stata espulsa dal sistema stesso molto tempo fa, dicevamo.
Di tanto in tanto, l’amministrazione presidenziale allenta le regole e consente a uno dei sostenitori di Navalny di candidarsi alle elezioni: ciò ha dato ai funzionari statali l’opportunità di dimostrare che essi sanno dove aumentare e allentare la pressione, dove allungare le redini e dove porre il veto per impedire all’opposizione di avere qualsiasi realistica possibilità di successo. Navalny, paradossalmente, ha reso più forte l’amministrazione presidenziale che si è occupata di lui.
Adesso che Navalny non c’è più, alzerà un muro impenetrabile tra l’opposizione e la politica perché ad aprile il plebiscito democratico a favore di Vladimir Putin dovrà essere abnorme, con qualche spazio di consenso riservato solo ai non oppositori “dal di fuori” del sistema. I servizi di sicurezza cercavano da tempo di riportare la loro influenza sulla vita politica russa ai livelli dell’era sovietica: la morte di Navalny sancisce la loro vittoria.
Il dibattito circa le cause della morte e le prove che verranno addotte non spostano la questione di fondo: di dissenso si muore, se il dissenso è profondo.
Sarà stucchevole ascoltare i pareri circa la sopportabilità di un regime carcerario come quello a cui è stato sottoposto, fatto di 300 giorni l’anno di cella di punizione, senza cure mediche adeguate, in perenne sciopero della fame. Navalny doveva morire perché il regime lo voleva morto. Ed è quel che è successo.
La portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova ha deriso i leader della NATO per aver “immediatamente” incolpato Mosca per la morte del critico del Cremlino incarcerato: “Non esiste ancora un esame medico forense, ma l’Occidente ha le sue conclusioni pronte”, ha scritto sull’app di messaggistica Telegram. Ecco, questa sarà la linea del Piave del Cremlino: accertare le cause vere di una morte accidentale. Forse un raffreddore. Forse una influenza sfuggita all’attenzione del personale sanitario. Navalny è stato imprigionato nel gennaio 2021, dopo essersi ripreso da un avvelenamento quasi fatale con quello che gli scienziati occidentali hanno definito essere il Novichok, un agente nervino di livello militare vietato, sviluppato dall’Unione Sovietica. Ufficialmente “il detenuto A.A. Navalny ha iniziato a sentirsi male dopo una passeggiata e ha perso conoscenza quasi immediatamente nel carcere n. 3 il 16 febbraio”, ha detto il servizio penitenziario del distretto autonomo di Yamal-Nenets.
La verità è che Navalny è morto cercando di sfuggire alla morte. Navalny è morto sperando di restituire consapevolezza ad un popolo, quello russo, che si appresta a ridare fiducia a Putin. Questo è il paradosso di una morte annunciata e testardamente messa in conto. Confortato, Navalny, dalle continue manifestazioni dei suoi sostenitori “estremisti”: quella di due giorni fa e quelle del 23 e 31 gennaio, concluse con arresti e detenzioni di massa, seguendo un copione che lui aveva imparato a menadito, patito consapevolmente, fino a morirne.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI