Esiste la mafia al Nord Italia? E da quando? Il Fatto Quotidiano online è entrato in possesso di un “pizzino” che dimostrerebbe come la mafia, in particolare la ‘ndrangheta fosse ben inserita al settentrione da almeno 50 anni. Il pizzino in questione sarebbe indirizzato a un giornalista e contiene una minaccia esplicita: “Se continui a scrivere tutte quelle fandonie sui cutresi sarai un uomo morto. Lascia Reggio entro giovedì o ti troveranno sforacchiato con questa (una pistola)”. In calce, “La mafia di Cutro. Crepa vigliacco”. Quel pizzino risale al novembre 1970 e porterebbe ancora più indietro nel tempo la presenza della ‘ndrangheta in Emilia Romagna. Il giornalista Antonio Zambonelli destinatario delle minacce oggi ha 80 anni e all’epoca non si lasciò intimidire. La sua colpa fu quella di aver pubblicato la prima puntata di un’inchiesta sul caporalato a Reggio Emilia e Modena accusando i mafiosi rei di aver sfruttato giovani immigrati provenienti da Cutro e imprenditori edili del posto che incentivavano l’immigrazione e il lavoro nero. Il giornalista minacciato aveva firmato sul periodico Reggio 15 una lunga inchiesta dal titolo “La mafia dei cantieri”.



‘NDRANGHETA IN EMILIA: MINACCE AI GIORNALISTA

Furono diversi gli studiosi che in quegli anni sottolineavano la situazione che si viveva a Reggio Emilia. Pietro Pattacini, nel suo libro dal titolo “La comunità di Cutro a Reggio Emilia”, riferì di aver visto nel ’73 un grande manifesto pubblicitario che invitava con queste parole: “Venite a Reggio Emilia, troverete un avvenire interessante e sicuro”. A quel richiamo risposero in tanti come spiega oggi il giornalista il quale riuscì ad entrare in contatto con numerosi ragazzi sottopagati i quali, spiega il cronista, “Si sentono come degli esiliati e hanno in cuore una idea fissa: tornare al paese per ricostruire la famiglia”. Zambonelli ha aggiunto: “Gli aspetti paramafiosi di questa complessa rete di rapporti umani, trapiantati dalla Calabria a Reggio Emilia, non avrebbero potuto attecchire e non potrebbero svilupparsi se non avessero trovato in loco un terreno favorevole nelle esigenze di sempre maggiori profitti delle imprese”. Dopo 15 giorni dalla pubblicazione della sua inchiesta giunse la minaccia di morte sulla quale nessuno indagò mai ma questo non frenò affatto il cronista che proseguì con la sua inchiesta. Se il giornalista continuò a raccontare ciò che accadeva a Reggio Emilia, il rotocalco non sopravvisse alla dura legge del mercato e dopo l’indagine sul caporalato chiuse i battenti.

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