Gli scienziati dell’Università di Oxford hanno identificato dei marcatori molecolari nel sangue che sono collegati alla nebbia cerebrale dovuta al long Covid. Si tratta di una condizione che provoca confusione mentale, difficoltà di concentrazione, affaticamento e altri problemi cognitivi nei pazienti a cui è stato in passato diagnosticato il virus. È emerso, come ricostruito dal Guardian, che livelli elevati di due diverse proteine erano più comuni nelle persone che avevano sviluppato questi sintomi.
Il lavoro, descritto come “un importante passo in avanti” per la scienza da un esperto indipendente, ha rafforzato l’ipotesi emersa al culmine della pandemia secondo cui il Covid-19 lascia ad alcuni pazienti dei minuscoli coaguli nei polmoni e potenzialmente anche nel cervello, portando a una vasta gamma di problemi. Gli alti livelli di queste due proteine sembrano portare infatti proprio a questa condizione. I risultati potrebbero rivelarsi utili nel caso in cui gli studi clinici che stanno testando una serie di trattamenti per la nebbia cerebrale concludessero che gli anticoagulanti possono migliorare la condizione dei pazienti.
Nebbia cerebrale post Covid: lo studio svela la causa
I ricercatori dell’Università di Oxford, nel corso dello studio, hanno esaminato le proteine del sangue in più di 1.800 pazienti che avevano avuto il Covid ed erano stati ospedalizzati e hanno scoperto che al momento dell’infezione, coloro che avevano sviluppato problemi cognitivi di lunga durata, avevano più probabilità di altri di avere livelli elevati di una proteina chiamata fibrinogeno o di un frammento proteico chiamato D-dimero. Essi sono un segno di coaguli di sangue nel corpo.
Testare i livelli di proteine nel sangue dei pazienti potrebbe dunque rappresentare un importante strumento di allerta per i medici, i quali in futuro potranno individuare i pazienti che necessitano di essere trattati precocemente per i coaguli e quelli che invece sono meno a rischio. Anche perché la nebbia cerebrale è soltanto uno dei problemi collegati al fenomeno. “Sono necessarie cure reali”, ha affermato il dottor Michael Zandi dell’UCL Queen Square Institute of Neurology. “Le associazioni non ci forniscono ancora un meccanismo chiaro e valido per tutti”.