Putin che vuole negoziare, Putin che è disposto a usare armi nucleari. Si gioca entro queste due possibilità il futuro dell’Ucraina: una trattativa, per quanto in posizione di inferiorità rispetto a Mosca, che porti a far tacere le armi, e un’escalation che potrebbe avere conseguenze impensabili per tutta l’Europa. Se si aprisse un tavolo per discutere di pace, i russi, come ribadito dal presidente nel suo ultimo discorso, vorrebbero il riconoscimento dei territori conquistati e l’assicurazione che Kiev non entri nella NATO, mentre l’Ucraina si dovrebbe accontentare di tenersi il resto del Paese senza più rischiare di perdere anche quello.
Un elemento potrebbe cambiare lo scenario, osserva Marco Bertolini, generale già comandante del COI e della Brigata Folgore in diversi teatri operativi, tra cui Afghanistan, Libano, Somalia e Kosovo: la “crisi morale” delle forze armate ucraine e della popolazione, scoraggiate dalle notizie delle sconfitte rimediate al fronte. Uno scenario che porterebbe a un sostanziale collasso del Paese, finendo in balìa della Russia.
Pure il dibattito innescato dalle parole di Macron sul possibile invio di truppe occidentali in Ucraina delinea situazioni e prospettive inquietanti. L’opinione pubblica ormai è abituata a sentir parlare di soldati da mandare a sostegno di Kiev e anche di un possibile impiego del nucleare: l’escalation delle parole precede sempre quella delle armi.
Generale, due sono gli argomenti cruciali del discorso di Putin sulla guerra: da una parte dice di essere disponibile a un negoziato, dall’altra che l’opzione nucleare è sempre sul tavolo. Quale dei due scenari è più probabile?
Putin è coerente con quello che ha sempre detto. A due anni dall’inizio della guerra, per evitarla aveva posto delle condizioni (autonomia di Donetsk e Lugansk e Ucraina fuori dalla NATO); mantiene il punto. Anzi, alza l’asticella, parlando di annessione delle due repubbliche e di riconoscimento degli altri territori conquistati sul campo. All’inizio ci si poteva limitare a concedere la Crimea e l’autonomia delle due aree indicate, adesso la posta in palio si è alzata, perché la Russia sta vincendo la guerra. Mosca, d’altronde, non ha mai escluso un negoziato; si è data da fare in Bielorussia, in Turchia e in altre sedi. A Putin non conviene una guerra aperta che potrebbe diventare nucleare. È svantaggiato perché non è in grado di colpire il suo principale nemico, gli USA, con armi nucleari tattiche; potrebbe usarle solo contro l’Europa. Mentre gli americani potrebbero dirigere lo stesso tipo di armi verso il territorio russo perché sono già pronte in Europa. Il capo del Cremlino, però, non può neanche rinunciare ai suoi obiettivi.
In un eventuale negoziato, gli ucraini, ora in svantaggio, cosa possono ottenere?
Possono ottenere di mantenere sotto la loro sovranità i territori che non sono ancora stati occupati dalla Russia. Se si stabilisse che l’Ucraina non entrerà nella NATO, riconoscendo ai russi i territori conquistati, non ci sarebbe più motivo di continuare a combattere. Certo, per i russi sarebbe una vittoria: il conflitto, tuttavia, ha dimostrato che sono più forti, ma anche che hanno dei limiti. Non ci sono state avanzate clamorose, se non all’inizio; per il resto si è trattato di battaglie molto dure. Da lì a pensare a ulteriori guadagni di territorio, quindi, ne passa. A meno che non ci sia un crollo del fronte interno.
Esercito e popolazione ucraina potrebbero non reggere più il peso della guerra?
Succederebbe se ci fosse un crollo morale del Paese, che non vuole più sottostare ad altre mobilitazioni, vuole arrivare alla pace e cambiare la leadership. Accadesse tutto questo, la Russia potrebbe anche arrivare al Dnepr.
Gli ucraini vogliono reclutare altre 500mila persone per sostituire i soldati esausti al fronte e per crearsi una riserva, ma i dati parlano di 1,3 milioni di persone fuggite all’estero per evitare l’arruolamento. È il segnale di un rifiuto della guerra già in atto?
C’è una “crisi morale”, un rifiuto della mobilitazione. I commissari che vanno a reclutare i soldati devono spesso usare le maniere forti per costringere gli uomini ad andare al fronte. Una situazione dura: ci sono persone prese e mandate in battaglia senza addestramento adeguato. E l’esercito sta subendo perdite importanti. La mobilitazione è anche un problema sociale: è la società in sé che comincia a non volerne più sapere perché sottrae forza lavoro, figli e mariti alle famiglie. Per questo incide molto sul morale.
Tornando al negoziato, chi potrebbe mediare tra Russia e Ucraina? La Svizzera, che aveva ospitato il forum per la pace con Zelensky, non viene considerata neutrale dai russi. Restano la Turchia e la Cina?
Pechino è parte in causa come l’Europa, anche se in maniera diversa. È il principale alleato economico della Russia. Credo che Erdogan sia l’unico che può fare il mediatore: fa parte della NATO e ha fornito armi all’Ucraina, anche se ha continuato ad avere con la Russia un atteggiamento dialogante e rapporti economici. Il Vaticano, dopo le dichiarazioni di Bergoglio sull’Ucraina che deve esporre bandiera bianca, credo che non abbia spazi di manovra. Anche se in fin dei conti il Papa non ha detto niente di strano, solo che il dovere di ogni governante, di fronte a una guerra che non ha sbocchi positivi, è di salvaguardare il suo Paese e la sua popolazione.
Il direttore della CIA, William Burns, dice che senza sostegno l’Ucraina tra un anno dovrà sottostare alle condizioni della Russia. Intanto gli USA mandano 300 milioni di dollari di aiuti. Cosa si può fare con un aiuto del genere?
Trecento milioni sono una cifra importante ma non sufficiente a contrastare lo strapotere russo, soprattutto in termini di munizionamento. È un contentino politico per far vedere che si continua ad appoggiare Zelensky. A mano a mano che si avvicinano le elezioni, il disimpegno USA sarà sempre più marcato e c’è il pericolo che l’UE rimanga con il cerino in mano.
L’Unione Europea ha annunciato 5 miliardi di euro per l’Ucraina nel 2024. Basteranno a fare qualcosa?
Bisogna valutare l’operatività di questo piano: gli ucraini hanno bisogno di aiuti subito, non che arrivino a dicembre.
Il presidente della Lituania non scarta l’ipotesi di utilizzare truppe in Ucraina, il presidente polacco Duda propone a Biden di alzare dal 2 al 3% il tetto di spesa per la difesa dei Paesi della NATO. C’è un’Europa che si prepara a combattere?
Le posizioni delle tre repubbliche baltiche sono note da tempo, coltivano un odio profondo per la Russia anche se buona parte della loro popolazione è russa. Per quanto riguarda la Polonia, che ora ha un primo ministro su posizioni diverse rispetto al presidente, questa richiesta significa che è finita l’epoca del peace and love forever, cosa della quale dovevamo accorgerci da qualche anno, da quando sono partite le primavere arabe. Passare dal 2 al 3% non vuol dire andare a cercare grane con la Russia, ma premunirsi verso i pericoli.
L’idea delle truppe lanciata da Macron inizialmente è stata rifiutata da tutti, però si continua a parlarne: non è che a poco a poco l’Occidente si convincerà a mandarle?
All’inizio della guerra non avremmo mai pensato di mandare carri armati in Ucraina e poi non solo li abbiamo mandati, ma qualche Paese avrebbe inviato anche truppe. Non avremmo mai pensato di fare guerra alla Russia, invece ora se ne discute tranquillamente. Il discorso sulle truppe fa parte di una strategia: stanno alzando l’asticella in modo che le nostre coscienze si abituino a una situazione che fino a poco tempo fa avremmo definito assurda. Stessa cosa sta succedendo per le armi atomiche.
Ma così passo dopo passo stiamo arrivando sull’orlo del burrone?
Il rischio è questo. Se non smettiamo di usare un certo tipo di linguaggio, di ipotizzare a livello di opinione pubblica situazioni simili, alla fine ci si arriva, proprio abituando la gente un po’ per volta ad accettare ciò che prima avrebbe bollato come pazzesco. Così, invece, diventa logico.
(Paolo Rossetti)
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