Nel dicembre scorso Neil Young ha pubblicato Barn che è considerato il 41° album in studio. Tuttavia, in oltre cinquant’anni di attività, è facile perdersi nella conta ufficiale se, ai dischi in studio, si aggiungono anche gli album registrati ma dati alle stampe con decenni di ritardo rispetto all’effettiva realizzazione (Homegrown e Hitchhiker sono clamorosi), gli EP (come dimenticare l’ottimo Eldorado), le colonne sonore (Dead Man è un must per i cultori del feedback e guitar noise), i live (tra solo, con band, in acustico ed elettrico ce n’è per tutti i gusti) e il materiale degli Archives. Per misurare la grandezza di Neil Young questo repertorio è più che sufficiente ma per valutare la sua opera nel completo non si può prescindere anche dal suo enorme contributo alla produzione di CSNY e Buffalo Springfield.
Neil Young è uno dei pochi artisti a poter vantare almeno un capolavoro in ognuno dei suoi decenni di produzione. A partire dalla fine degli anni sessanta, con il primissimo album intitolato Neil Young, fino a Barn, e con l’apice artistica negli anni settanta e novanta, Neil Young non ha mai smesso di seguire il suo istinto creativo e di perseguire con testardaggine “il sogno di un hippie”. Nessuno come lui ha avuto così tanti alti e bassi frutto della sua spontaneità ed estro, infatti, nella sua ricca produzione non sono mancati lunghi passaggi a vuoto se pensiamo al periodo Geffen (da Trans 1982 a Life 1987) o agli anni duemila in cui buoni album si sono alternati a produzioni incomprensibili. Neil Young ha sempre seguito il suo istinto che lo ha portato a comporre delle opere eccellenti ma anche a commercializzare dei lavori improbabili (The Visitor o Storytone sono un esempio recente) o quanto meno discutibili come Greendale e Living with War (che personalmente invece ho amato e ascoltato fino allo sfinimento). Chi segue e ascolta Neil Young da tempo lo sa bene: non lo si può imbavagliare o scendere a compromessi con lui.
Noti i suoi endorsement sulla politica e sull’ambiente, ha sempre cercato di essere coerente con i suoi ideali tanto da esporsi in prima persona (la scelta di uscire da Spotify è solo l’ultimo esempio) e spesso è andato dritto panche nelle scelte più bizzarre. Ha pubblicato degli album spesso mettendo in secondo piano la forma a beneficio dell’ispirazione artistica e ha portato avanti dei progetti talvolta sconclusionati ma realizzando nel suo insieme una quantità di capolavori tali da avere pochi eguali nel mondo del rock.
Abbiamo passato in rassegna i suoi lavori in studio cercando di metterli in ordine dal decimo al primo, in realtà due sono i dischi a pari merito al primo posto. Non sparate sull’autore di questo pezzo, questa classifica vuole essere un gioco ed è frutto della valutazione di un momento e come tale è soggetta a mutamenti nel tempo.
10 – Mirror Ball con i Pearl Jam (1995)
Il disco ruba la posizione a Harvest Moon non tanto per le canzoni in sé, nessuna di Mirrorball è davvero memorabile e nessuna è entrata in pianta stabile nelle set list live di Neil Young, piuttosto per la portata della collaborazione: nel pieno del movimento grunge un disco con i Pearl Jam, che al tempo avevano all’attivo già il meglio della loro produzione (Ten, Vs. e Vitalogy), è il massimo che si poteva desiderare. Già definito il “Padrino del Grunge” al tempo dell’uscita del precedente Sleep with Angels a Neil Young è stato attribuito un ruolo di guida di un movimento di giovani band che hanno visto in lui una ricca fonte di ispirazione. A sua volta Neil Young è stato toccato dalla morte di Kurt Cobain e ha cavalcato l’onda devastante del Grunge. Mirror Ball è un disco che fa rumore: registrato in soli quattro giorni si presenta come un rock ruvido ed essenziale che a distanza di tempo è ancora molto orecchiabile. L’album si completa con l’EP Merkinball uscito in questo caso a nome dei soli Pearl Jam.
Highlights: Downtown, I’m the Ocean, Throw your Hatred Down
9 – Rust Never Sleeps con i Crazy Horse (1979)
Disco di inediti ma per buona parte registrato dal vivo, Rust Never Sleeps rappresenta in pieno le mille contraddizioni e i numerosi risvolti dell’arte di Neil Young. L’album è stato concepito per essere suddiviso in due set: il primo più armonioso e acustico e il secondo più distorto e punk. È proprio questa nuova doppia veste, melodiosa e assordante, che riesce a sorprendere nuovamente i fan e a riconquistarli. A fare da collante ci pensa il brano My My, Hey Hey che si sdoppia in acustica (Out of the blue) e in elettrica (Into the Black) in versione Hey Hey, My My. Nella canzone simbolo ci sono riferimenti a star della musica (Elvis, Johnny Rotten) ed è ricca di frasi iconiche come “It’s better to burn out than to fade away” (usata da Kurt Cobain nella sua lettera di addio), “Rock and Roll is here to stay” e ancora “Rock and Roll can never die”. Il rock di Neil Young è libertà, e con lui la ruggine non dorme mai. Il CD Live Rust e il DVD Rust Never Sleeps raccolgono probabilmente le sue esibizioni live migliori di sempre.
Highlights: Hey Hey, My My (into the Black), Pocahontas, Powderfinger
8 – Zuma con i Crazy Horse (1975)
Dopo il periodo di crisi esistenziale, Zuma è conosciuto tra i fan per essere il disco della rinascita e della tempesta elettrica che vede il ritorno dei Crazy Horse con Frank “Poncho” Sampedro alla chitarra ritmica. Registrato in prossimità della spiaggia californiana di Zuma Beach, l’album mette a tema Montezuma e la società azteca ai tempi dei Conquistadores. Nel brano più rappresentativo Cortez the Killer, oltre 7 minuti di loop elettrico, Herman Cortés è un assassino che soggioga la popolazione indigena e mette fine all’idillio dell’impero di Montezuma. Gli storici criticheranno Neil Young per questo revisionismo che porta ad una idealizzazione eccessiva degli Aztechi; gli appassionati del Loner canadese invece avranno di che godere di questo ritorno al sound dei primi Crazy Horse. Sebbene i tormenti e i tratti cupi non siano del tutto spazzati via, nel complesso il disco riflette una ritrovata gioia di vivere combinata ad una sonorità rock in cui le chitarre elettriche ben si combinano con le ballate folk.
Highlights: Cortez the Killer, Danger Bird, Bastool Blues
7- Freedom (1989)
Freedom è il disco che rappacifica Neil Young con i suoi fan e, dieci anni dopo Rust Never Sleeps, di fatto inaugura una nuova fase della sua carriera e il ritorno alla grande musica dopo i tentativi falliti e le divagazioni di genere con la Geffen. Il punto più alto del disco è Rockin’ in the free world, una potente canzone politica che non risparmia nessuno. Presente nel disco sia in versione acustica che elettrica, è un invito alla rivendicazione sociale e un rabbioso sollecito a verificare il grado di libertà che ogni cittadino pensa di avere: la libertà non è certo quella di “persone che dormono nelle scatole” o quella “di un bambino che non andrà mai a scuola, che non si innamorerà mai e che non sarà mai grande”. Il muro di Berlino sarebbe crollato un mese dopo la pubblicazione del disco e il brano assume un forte valore simbolico e diventa presto un orgoglioso inno di libertà. Canzone simbolo del canadese, Rockin’ in the Free World è diventato uno dei suoi brani più coverizzati e una delle canzoni più attese nelle esibizioni live. Proprio una sua versione incendiaria e dirompente al Saturday Night Live lo proietterà nuovamente alla ribalta tanto da essere identificato come punto di riferimento delle nuove generazioni rock, tra cui il giovane Eddie Vedder. Nel complesso l’album è il frutto delle sue sperimentazioni ed esperienze musicali degli anni ottanta, stili che ben si amalgamano nel disco fornendo le basi per un grande ritorno.
Highlights: Rockin’ in the world, Too Far Gone, Crime in the City (Sixty to Zero Part I)
6 – Time Fades Away (1973)
“Il peggior disco che abbia mai realizzato” avrebbe dichiarato Neil Young eppure Time Fades Away è una testimonianza preziosa del dark side dello show biz, luccicante ed effimero, in cui il sogno di un hippie si infrange e si sgretola davanti alle droghe e alla morte. Registrato con gli Stray Gators nel corso di vari concerti dal vivo, non è esattamente il seguito perfettino e patinato che tutti si sarebbero aspettati dopo Harvest, anzi, Time Fades Away è il primo album della “trilogia oscura” (insieme a On the Beach e Tonight’s the Night): “Non avevo bisogno di fama… preferisco continuare a cambiare e a perdere gente lungo la strada, se questo è il prezzo da pagare”. È un album spontaneo e diretto che riflette il suo stato d’animo conseguente alla perdita del Cavallo Pazzo Danny Whitten, di cui si sente colpevole, e di una situazione familiare drammaticamente complicata. Nell’album, pubblicato in versione CD per la prima volta solo recentemente, Neil Young combina malinconiche ballate pianistiche con nervose versioni elettriche. Ossessiva, paranoica e quasi folle la musica del disco strega e incanta l’ascoltatore anche a distanza di anni.
Highlights: Love in Mind, Don’t be Denied, Journey Through the Past
5 – After the Gold Rush (1970)
Reduce dal successo di Déjà Vu con il super gruppo CSNY e dalla relativa tournée, in poco tempo Neil Young ha già pronto un nuovo disco a suo nome. Ispirato dalla sceneggiatura del film fantascientifico After the Gold Rush, progetto che non verrà mai portato a termine, Neil Young da quella idea porta in dote un paio di canzoni che saranno alla base del nuovo disco. Una di queste è la title track, che, sebbene cantata ad una tonalità superiore alle sue capacità risulta molto intensa e drammatica: l’intonazione cede e la voce si spezza ma riesce a dare al brano quel tocco di struggimento e di afflizione che lo rende un capolavoro. Un’altra canzone memorabile è Southern Man, una dura denuncia contro il razzismo violento del Sud del Paese. La risposta dei Lynyrd Skynyrd, paladini del Southern Rock, non si farà attendere tanto che nella loro hit Sweet Home Alabama del ’74 canteranno “Well I hope Neil Young will remember, a Southern man don’t need him around anyhow”. Nel complesso il disco ha il merito di bilanciare perfettamente i brani acustici con canzoni rock sferraglianti, ballate pianistiche con filastrocche gioiose. Anche i musicisti che contribuiscono alla realizzazione sono molteplici ma ottimamente combinati: ai ritrovati Crazy Horse si aggiungono alla voce e al piano Stephen Stills, Jack Nitzsche e Nils Lofgren.
Highlights: Southern Man, After the Gold Rush, Tell my why
4 – Tonight’s the Night (1975)
In stand by per quasi due anni, ma in continuità con Time Fades away e On the Beach, prosegue il suicidio commerciale del Loner canadese. Il dolore e lo sconforto si fanno più intensi nei testi e nelle musiche dell’album: “Please take my advice, open up the tired eyes”. Neil “Waterface” Young dedica la canzone simbolo, Tonight’s the Night, che apre e chiude il disco, all’amico roadie Bruce Berry morto di overdose senza riuscire a trovare una vera consolazione. Con la sua voce alta e tremante, con un suono non sempre pulito, Neil Young mostra tutta la sua fragilità e vulnerabilità. La musica, paranoica, cruda e diretta, è un viaggio allucinato dove la luce si perde nelle tenebre. Nel pieno della crisi esistenziale e in preda alla depressione più totale, Tonight’s the Night è un grido disperato che solo un grande artista come Neil Young, sull’orlo dell’abisso, ha saputo trasformare in arte.
Highlights: Tired Eyes, Tonight’s the Night, Roll Another Number (for the Road)
3 – Everybody Knows This Is Nowhere con i Crazy Horse (1969)
È il primo album di quattordici pubblicato con i Crazy Horse al tempo composti da Danny Whitten, Billy Talbot e Ralph Molina (tutti ex Rockets). Il trio di Los Angeles diventerà nel tempo la principale backing band con cui Neil Young porterà in giro la propria musica: “I Crazy Horse sono la terza migliore garage band del mondo. La prima sono, ovviamente, i Rolling Stones. La seconda è sicuramente da qualche parte a suonare rock’n’roll dentro un garage”. Il pubblico che, fino a quel momento conosceva Neil Young sulla base dei suoi trascorsi con i Buffalo Springfield e del suo primo album omonimo, si cimenta con un nuovo sound elettrico, un suono energico e granitico che conquista il popolo rock. L’album infatti rappresenta l’essenza del connubio del canadese con il trio di Los Angeles, un approccio alla musica nudo e crudo, poco attento alla forma e molto focalizzato alla resa. La testimonianza migliore sono le versioni torrenziali di Down by the River e Cowgirl in the Sand, un vero godimento per gli amanti delle cavalcate elettriche.
Highlights: Cinnamon Girl, Down by the River, Cowgirl in the sand
2 – Ragged Glory con i Crazy Horse (1990)
Con Ragged Glory prosegue il connubio vincente Neil Young+Crazy Horse. Inciso all’insegna dell’immediatezza e della spontaneità, Neil Young scrive e confeziona per l’occasione sette canzoni nell’arco di una settimana. Fuckin’ Up risale a qualche mese prima ovvero è immediatamente successiva a Freedom mentre di Country Home e White Line si erano già ascoltate versioni dal vivo nel periodo 1975/76. Nell’album, registrato negli studi nel fienile del Broken Arrow Ranch, si coglie il clima disteso e il piacere di ritrovarsi a suonare di nuovo insieme. Solidi e compatti, il suono delle chitarre viene lasciato andare a briglie sciolte e la ritrovata alchimia, dopo il passo falso di Life, si può riscontrare anche durante il tour di promozione del disco ben rappresentati dai live Weld e Way Down in the Rust Bucket che rendono perfettamente l’idea del muro sonoro e dello spirito con cui è stato realizzato il disco.
Highlights: Country Home, Love to Burn, Love and only Love
1 – On the Beach (1974)
Questo disco si aggiudica in ex aequo la prima posizione come miglior album mentre l’immagine desolante e malinconica della spiaggia di Santa Monica sotto un cielo insolitamente poco luminoso, vince a mani basse come foto di copertina più bella. Secondo capitolo della Ditch Trilogy (terzo se Tonight’s the Night non fosse stato pubblicato due anni dopo la sua incisione), On the Beach ha il merito di combinare perfettamente suoni diversi e a suscitare emozioni forti talvolta contrastanti. Spontaneo e ipnotico, il disco è per gran parte deprimente e lamentoso ma a tratti si rivela anche elettrizzante e scherzoso. Il sentimento umano viene mostrato ancora una volta senza filtri e per la prima volta si inizia ad intravedere la luce fuori dal tunnel. Il suono di On the Beach è di altissima qualità ma come già in altri album la voce non arriva sempre chiara e limpida a tutte le note e la musica non è sempre melodiosa. Eppure, questo sound così diretto e struggente, questa ruggine nelle canzoni e questa sincerità disarmante, sono così drammaticamente vere da arrivare a commuove il nostro cuore.
Highlights: See the Sky about to Rain, Ambulance Blues, On the Beach
1 – Harvest (1972)
Pubblicato solo due anni prima di On the Beach, Harvest è l’album perfetto, è il classico disco da avere nell’isola deserta. E’ anche l’album che ha avuto il maggiore successo commerciale e che ha portato Neil Young in vetta alle chart US e di tutto il mondo. Accompagnato dagli Stray Gators e dagli amici CSN, Linda Ronstadt e James Taylor, Neil Young realizza dei capolavori assoluti diventati dei grandi classici apprezzati da più generazioni come Heart of Gold, Old Man e The Needle and the damage done. Il mood dell’album passa in rassegna diversi stadi dell’animo umano, dall’ottimismo alla gioia, dalla malinconia al senso di perdita. Rasserenante (solo in apparenza) e bucolica, la musica di questo disco è indispensabile perché ci fa capire come si abbia la necessità di un artista e di un uomo come Neil Young che, con la sua fragilità e la sua voce spezzata, ci fa commuovere e ci apre il cuore alla bellezza.
Highlights: Heart of Gold, Old Man, Words