Solo Bob Dylan aveva fatto qualcosa di simile: alienarsi il proprio pubblico dopo essere assunto a autore di canzoni più importante al mondo. Lo fece dopo essersi ritirato a vita privata, abbandonando il mondo dello spettacolo e pubblicando un disco che letteralmente lasciò interdetti tutti i suoi ascoltatori, canzoni pop e di country melenso della peggior specie (Selfportrait, per la cronaca). Ma se per Bob Dylan quel gesto autodistruttivo era dovuto al bisogno di allontanarsi dalle pressioni e dal culto destabilizzante che si era costruito attorno a lui, per Neil Young fu qualcosa di più drammatico. Pochi altri artisti nella storia del rock sembrano aver odiato il successo commerciale tanto quanto il canadese.



Grazie all’enorme successo commerciale avuto con la pubblicazione del suo disco solista Harvest nel 1972, aveva scalzato Dylan e chiunque altro dal trono di autore di canzoni più amato al mondo. Era giunto a quel livello dopo la militanza nei Buffalo Springfield, alcuni dischi solisti eccellenti e soprattutto la partecipazione al supergruppo CSNY. Era ovvio aspettarsi un proseguimento allo stesso livello.



Ma i tempi erano brutalmente cambiati. Young si era venuto a trovare in mezzo a uno sconvolgimento storico e culturale che lo travolgerà in pieno. L’America degli ideali hippie a cui lui aveva creduto fortemente si stava inabissando in un tunnel di droga e di morte. Il Paese era travolto dallo scandalo Watergate che poneva il sigillo su una disillusione culturale e politica senza precedenti. Neil Young, animo fortemente sensibile, accusò il colpo.

I più attenti avrebbero dovuto accorgersi che questa crisi era già insita nello stesso Harvest: il brano The needle and the damage done descrive la caduta nell’eroina di tanti dei suoi colleghi musicisti: “Ho visto l’ago e il danno fatto Una piccola parte di esso in ognuno di noi Ma ogni drogato è come il sole che tramonta”.



L’anno dopo si imbarca in tour che invece di essere la celebrazione di quello che Young ancora rappresenta per il suo pubblico, l’hippie pace & amore, si rivela un incubo disastroso. L’amico Danny Whitten, leader del gruppo a cui Young si era accompagnato numerose volte, i Crazy Horse, muore per overdose di eroina proprio quando si stanno tenendo le prove. È lo stesso Young a rimandarlo a casa con un biglietto aereo di sola andata perché sempre fatto di eroina non riesce quasi più a suonare. Sarà a lungo perseguitato dai sensi di colpa. Quel tour viene immortalato con un atto spregiudicato e coraggioso: un intero disco live composto di soli brani inediti. Sono canzoni dai riff monolitici, strazianti, pesanti a cui si accompagnano tenui ballate al pianoforte, nessun riferimento alle atmosfere di Harvest. In Don’t be denied Young si auto descrive, rimpiangendo i giorni spensierati in cui fare musica era una passione, adesso che si vede come “un milionario attraverso gli occhi di un uomo d’affari”.

Nell’estate di quello stesso anno, il 1973, Young si reca in studio a registrare un disco che la sua casa discografica respingerà, il lugubre Tonight’s the night, sorta di celebrazione funebre dello scomparso Danny Whitten e di un suo roadie morto anche lui per eroina, in cui Young descrive con devastante precisione la fine degli ideali della sua generazione. Registrato di notte, con abbondanti dosi di tequila, quasi completamente stonato e fuori fase, il disco rimane come una delle più grandiose e cupe registrazioni da parte di un grande artista.

Il disco uscirà solo due anni dopo. Prima, Young riuscirà a far uscire un altro disco, meno deprimente, ma sempre inquietante. Si chiama On the Beach ed esce a luglio del 1974. In copertina Neil Young è di spalle, guarda sconsolato il mare, si trova solo nella spiaggia dei miraggi svaniti e del disincanto. Gli fanno compagnia una tristezza cosmica, il titolo di un giornale sul Watergate, una Cadillac sepolta nella sabbia. Il rimorso per la morte per eroina degli amici Danny Whitten e Bruce Berry e lo spettro della relazione fallita con  la prima moglie Carrie Snoodgress (“troppo spesso, quando tornavo a casa, abbracciavo la chitarra invece di lei,” dirà in seguito).

Benché il disco si apra con un brioso brano rock, Walk On, che inneggia a continuare la strada e denuncia i giornalisti che lo vogliono sempre identico a una immagine che lui sente non appartenergli più (“Sento che qualcuno sparla di me fanno il mio nome a casaccio e se lo rigirano non parlano dei tempi felici si facciano gli affari loro io mi farò i miei”) e contenga la eterea e bellissima ballata al piano elettrico See the Sky about to rain, un inno alla speranza, il resto del disco è deprimente.

Per la prima volta il cantautore canadese si avvicina al blues, una formula musicale che non gli appartiene, ma che è perfetta per canzoni d diisillusione e depressone. La title track ne è un magnifico esempio: un brano soffuso e sofferto, in cui l’artista si descrive come un fantasma in preda a una scissione dell’Io: “Il mondo sta girando Spero che non si allontani Tutte le mie foto stanno cadendo Dal muro dove le ho posizionate ieri (…) Ho bisogno di una folla di persone Ma non riesco ad affrontarli giorno per giorno Anche se i miei problemi sembrano poca cosa Questo non li fa andare via (…) Me ne vado dalla città, Penso che me ne andrò dalla città Perché il mondo sta girando E non voglio vederlo allontanarsi”.

Altrove Young esprime brutalità e violenza, quando scegliendo ancora la formula blues si lancia in una devastante descrizione della caduta dei miti della stagione hippie (Revolution blues) descrivendo Charlie Manson e la sua “family” di spietati assassini che avevano insanguinato il sogno: “Mi è venuto il blues della rivoluzione, vedo fontane insanguinate E dieci milioni di dune buggy che scendono dalle montagne Beh, ho sentito che Laurel Canyon è piena di star famose Ma li odio più dei lebbrosi e li ammazzerò nelle loro macchine”.

In Motion Pictures Young medita su un altro pesante fallimento, la fine della relazione con l’attrice Carrie Snodgress da cui aveva avuto il primo figlio, nato con un gravissimo handicap cerebrale.

Ma il capolavoro del disco è la lunghissima e straziante traccia conclusiva, una ballata folk intitolata Ambulance Blues, che lo stesso Young ammetterà di aver ripreso inconsciamente da un pezzo del folksinger inglese Bert Jansch, Needle and the death (brano che  parla di morte per overdose). In questo lungo e desolante soliloquio l’artista passa in rassegna i giorni giovanili con le prime esibizioni nei folk club, ammicca a Richard Nixon e allo scandalo Watergate (“Non ho mai conosciuto un uomo che potesse dire tante bugie ha una storia diversa per ogni sguardo come può ricordarsi con chi sta parlando?”), si infuria con la critica musicale (“Voi critici statevene per conto vostro, non siete meglio di me per quello che avete mostrato”) e accetta di essere criticato anche lui e il mondo da cui proveniva (“State tutti pisciando al vento Non lo sapete ma lo state facendo E non c’è niente come un amico Che sa dirti che stai solo pisciando nel vento”). Alla fine, si sta spezzando in due senza via d’uscita: “È facile farsi seppellire dal passato, quando cerchi di far durare una cosa bella”.

In sostanza, On the beach è una desolante fotografia in presa diretta di un momento storico preciso, la fine delle utopie di una generazione e il crollo della figura di artista di successo. Le canzoni sono meditazioni sulla fragilità e inconsistenza della fama, sulla politica e sugli ideali in declino del decennio precedente. Messi tutti e tre uno dopo l’altro, Times fade away, On the beach e Tonight’s the night si meriteranno l’appellativo di ”ditch trilogy”, la trilogia dell’abisso, ma Young in qualche modo riuscirà a uscirne.

Accompagnato dai due Crazy Horse superstiti Ralph Molina e Billy Talbot, da due membri di The Band, Levon Helm e Rick Danko, dal bassista Tim Drummond, dagli amici David Crosby (memorabile la sua chitarra ritmica in Revolution blues) e Graham Nash, da Ben Keith e Rusty Kershaw, il disco suona asciutto e minimale, con debordanti esplosioni elettriche e ritiri in oscure ambientazioni folk. Come ha scritto Marco Grompi nel suo libro del 2003 su Neil Young, resta “uno degli album più complessi, affascinanti, magnetici e indecifrabili di tutta la discografia di Neil Young”. E non solo.

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