Avere un cognome importante è certo un vantaggio in qualunque campo professionale, ma può anche rivelarsi un peso troppo ingombrante da portare. Le aspettative sono enormi: ci si aspetta che siccome il padre è stato celebre e ha avuto successo, nel nostro caso nel campo della musica, anche il figlio abbia la stesse qualità. Portare un cognome celebre, essere “figlio d’arte” ti permette di essere immediatamente riconosciuto e ottenere trattamenti favorevoli, saltare cioè la gavetta che fanno tutti. Ottieni un’angolazione che potrebbe essere usata per scopi di marketing quando si cerca di distinguersi dal resto del branco. Dall’altro lato, ci possono essere aspettative irragionevoli da parte del pubblico di essere all’altezza degli standard artistici e/o commerciali del famoso genitore. Jakob, figlio del massimo autore di canzoni di tutti i tempi, Bob Dylan, ha cercato inutilmente di nascondersi nell’appartenenza a una band per non subire tale sorte. Julian Lennon invece non ha fatto nulla per evitare di trovarsi sovra esposto sin da inizio carriera e ne ha pagato il prezzo. Dato lo scorrere del tempo, i figli d’arte sono ormai tantissimi, anzi ci sono ormai anche i “nipoti d’arte”. In questa classifica ci siamo concentrati su quelli che hanno avuto una carriera di una certa consistenza, o che comunque si sono distinti in qualche modo, evitando ad esempio gruppi come le Wilson Phillips (la pop band composta dalle due figlie del leader dei Beach Boys, Brian Wilson, Carnie e Wendy, e dalla figlia di John e Michelle Phillips dei Mamas and Papas, Chynna) sparite quasi subito dalla circolazione o i figli di batteristi leggendari, come Jason, figlio di John Bonham, e Zak Starkey, figlio di Ringo Starr.



10. Julian Lennon, Valotte, 1984

Più che per le sue canzoni, il figlio del primo matrimonio di John Lennon potrebbe essere preso in considerazione per essere stato l’ispirazione dietro a tre capolavori della band del padre, i Beatles, e cioè Lucy in the sky with diamonds, Hey Jude e Good night. Non lo ha aiutato neanche l’impressionante somiglianza con il padre e il tono similare della voce. Per il suo disco d’esordio, Valotte, uscito quattro anni dopo la morte del padre, Julian ottiene quello che nessun esordiente avrebbe sognato: un produttore leggendario che ha lavorato con tutti i più grandi, Phil Ramone, e un regista mitico per due video, Sam Peckinpah. Nonostante tutto questo, Valotte è una raccolta di canzoni fortemente segnata dalla musica del padre e abbruttite dai suoni del periodo storico, come l’uso fin troppo evidente di sintetizzatori. Il disco però avrà un enorme successo commerciale, cosa che per Julian non si ripeterà mai più. Naturalmente anche il fratellastro, figlio del matrimonio con Yoko Ono, Sean, si è dato alla musica, ma con un approccio più defilato, prima militando in diversi gruppi dell’avanguardia newyorchese come i Cibo Matto, poi producendo due dischi a suo nome (Into the sun e Friendly fire).



9. Yoriyos, Bury my heart at Wonded Knee, 2007

Non cercate notizie su questo curioso nomignolo su Internet, non troverete nulla se non qualcosa sull’unico album che ha pubblicato, Bury my heart at Wonded Knee nel 2007. Se c’è un figlio d’arte che ha usato un doppio escamotage per tenere nascosta la sua figliolanza è lui, Muhammad Islam, figlio di Yusuf Islam, oggi noto semplicemente come Yusuf ma con alle spalle una carriera come Cat Stevens. Personaggio di grandissima umiltà, ha pensato bene dopo che il suo primo e unico disco è passato quasi del tutto inosservato, di lasciare il mondo della musica. Eppure aveva delle chance. Come indica il titolo, preso di sana pianta dall’omonimo libro di Dee Brown, che ebbe il merito di descrivere per primo il brutale genocidio dei nativi americani, quasi tutto il disco è dedicato in modo commosso alla tragedia di quel popolo, in questo modo affrontando un tema lontanissimo da quelli del padre. Anche musicalmente  Yoriyos si muove su un percorso originale, un cantautorato acustico che abbraccia country e Americana, mentre in Querido Che il cantautore cambia tematica con un maggio a Che Gue Vara. Delicata e intimista la musica di questo ragazzo avrebbe meritato di essere sviluppata ma complice il ritorno del padre all’attività musicale ha forse pensato di farsi da parte.



8. Teddy Thompson, Teddy Thompson, 2000

Non sappiamo quanto due genitori come Richard e Linda Thompson lo abbiano aiutato a entrare nel mondo della musica. Certo è che il suo esordio avviene per una delle allora più importanti case discografiche, la Virgin, con un produttore di successo come Joe Henry e la presenza di artisti di lusso come Emmylou Harris, Greg Leisz, Jon Brion, l’allora ancora sconosciuto Rufus Wainwright e addirittura il padre alla chitarra in ben cinque pezzi, cosa che la dice lunga di un sano rapporto non competitivo fra i due. Disco d’autore elegante, virato verso l’alternative country e il folk d’autore, Teddy Thompson gode di una bella voce calda e flessuosa (certamente migliore di quella del padre) e di una decisa abilità compositiva. Solo otto dischi in vent’anni di carriera, ma tutti di buon livello.

7. Amy Helm, Didn’t Rain, 2015

Dopo aver fatto parte per una decina di anni di un acclamato gruppo di alternative country, gospel e folk, gli Ollabelle, la figlia del leggendario batterista di The Band, Levon Helm, affianca il padre nell’avventura che lo accompagnerà nei suoi ultimi anni di vita. Insieme, i due danno vita a una serie di concerti informali nella sua casa di Woodstock, le Midnight Ramble, dove ospiti illustri da Mavis Staples a Elvis Costello e tanti altri suonano in modo informale e gioioso. Non solo: insieme a Larry Campbell, Amy produce e canta nel primo disco di Levon Helm dopo 25 anni, lo splendido Dirt Farmer, a cui fa seguito un anno dopo un altrettanto riuscito secondo album, Electric Dirt e poi un live, Ramble at the Ryman. La voce di Amy è talmente bella e profonda che viene chiamata a registrare con una infinità di gruppi e artisti, dagli Steely Dan ai Mercury Rev, da Linda Thompson a Rosanne Cash. Dopo la morte del padre, nel 2012 può finalmente dedicarsi al suo esordio solista, lo splendido Didn’t rain, che vede l’ultima apparizione di Levon Helm alla batteria in tre brani. Con ospiti di prestigio come il pianista dei Little Feat, Bill Payne, Amy realizza un riuscito disco con brani come Good news di Sam Cooke e originali intensi come Sing to me.

6. Rufus Wainwright, Rufus Wainwright, 1998

Nonostante due genitori rappresentanti di spicco della scena folk e cantautorale come Loudon Wainwright III e Kate McGarrigle, Rufus si è affrancato sin da subito dal loro imprinting musicale, complice forse la sua omosessualità che ne ha caratterizzato le scelte musicali, come il coraggioso disco Rufus does Judy at Carnegie Hall, dove si cala nei panni della leggendaria Judy Garland riprendendo il suo repertorio. Il giovane si è sempre mosso nel mondo del pop barocco, guardando a Elton John, ma sempre con uno spirito coraggiosamente sperimentale, ad esempio nel disco Take All My Loves: 9 Shakespeare Sonnets, nove adattamenti di altrettanti sonetti del grande bardo inglese coadiuvato da un lungo numero di ospiti. Ma per non rischiare di perdersi in tanta creatività, forse è il caso di conoscerlo attraverso il suo disco di esordio, quello più legato alla canzone pop di impianto pianistico, canzoni aggraziate dalla bella ed espressiva voce del loro autore e dai lussuosi arrangiamenti del leggendario Van Dyke Parks. Nel disco compare anche la sorella Martha Wainwright, anch’essa cantautrice ma di approccio decisamente più combattivo, basti pensare al brano, dedicato al padre, intitolato Bloody Mother Fucking Asshole

5. Chris Stills, 100 Year Thing, 1998

Londra, 14 settembre 1974. Al termine dell’unico concerto mai tenuto in Europa del super gruppo Crosby, Stills, Nash & Young, Stephen Stills si presenta sul palco a salutare la folla con in braccio un neonato di soli cinque mesi: “Questo è il futuro!” dichiara orgogliosamente. Quel neonato è Chris che Stills ha avuto con l’allora moglie francese, la cantante Veronique Sanson. Il bambino, dopo il divorzio dei genitori, cresce con la madre a Parigi, ma non dimentica il sangue paterno, trasferendosi a inizio anni 90 a Los Angeles. Ha già scritto, sin da 16 anni, molte canzoni, ha imparato una ottima tecnica citaristica sia acustica che elettrica. Il disco di esordio arriva con l’ottimo 100 year thing, dove brani dall’intreccio chitarristico elegante non possono che rimandare alla stagione d’oro californiana, dai Buffalo Springfield a CSNY, ma Chris aggiunge gli umori della sua generazione alt. country. Conta infatti dell’amicizia di gruppi come Jayhawks e solisti come Ryan Adams. Farà diversi dischi, anche in francese, e ottimi live in cui si dimostra degnissimo figlio d’arte, intraprendendo anche la carriera d’attore. La promessa annunciata sul palco di Wembley è stata mantenuta.

4. Rosanne Cash, Interiors, 1990

Essere la figlia maggiore di una delle massime figure non solo della musica, ma della storia americana del Novecento, deve essere stato un peso non facile, anche tenendo conto del devastante divorzio del padre dalla madre, la prima moglie di Johnny Cash, Vivian Liberto. Rosanne c’è riuscita con profonda fatica, vivendo anche lei il dramma del padre, l’abuso di droghe, e prendendo le distanze dall’ingombrante figura paterna, dal punto di vista musicale (il disco di esordio venne registrato in Germania con musicisti tedeschi), dedicandosi inizialmente a un country pop di facile ascolto, crescendo e maturando negli anni e sviluppando una capacità autoriale intensa e raffinata, anche grazie alla splendida voce avuta in dono. Dopo aver dominato per anni le classifiche country, nel 1990 pubblica un disco profondamente intimista dove passa in rassegna i suoi traumi, incluso il recente divorzio dal marito, il cantautore Rodney Crowell. Con Interiors per la prima volta scrive da sola o in collaborazione tutti i brani. Rosanne Cash trova così la forza di uscire dal tunnel che l’ha segnata a lungo, diventando una donna consapevole e libera dai fantasmi.

3. A.J. Croce, That’s Me in the Bar, 1995

Quando il padre, Jim Croce, cantautore che sta appena iniziando a assaporare i primi grandi successi muore, Adrian James non ha ancora compiuto due anni. E’ solo l’inizio di una serie di sfortune che lo perseguiteranno, ma non ne segneranno la caratura artistica. A quattro anni di età diventa parzialmente cieco a causa degli abusi fisici da parte del compagno della madre, mentre la moglie muore nel 2018 lasciandolo padre single di due figli. Il ragazzo trova nella musica la consolazione, esibendosi nei club della zona di San Diego in California come pianista e comincia a scrivere canzoni. Notato da T-Bone Burnett che ne produce il disco di esordio, il secondo lavoro, That’s me in the bar, gode invece della produzione del leggendario batterista Jim Keltner e della partecipazione di ospiti di lusso come Ry Cooder e David Hidalgo dei Los Lobos. Croce ha sviluppato una totale autonomia artistica, lontana dal country-blues del padre, che in certi casi ricorda veterani come Randy Newman, in altri Tom Waits. Dotato di una bella voce roca e blues, pianista fenomenale e autore di melodie accattivanti, in questo disco descrive magnificamente il mondo notturno dei perdenti, tra la New Orleans di Professor Longhair e Allen Toussaint e i piano-bar delle metropoli della costa Est, storie d’amore finite male e tanta ironia.

2. Jeff Buckley, Grace, 1994

Quando Jeff Buckley spunta sulle scene dei club di New York nessuno si ricorda più chi era il padre. Cantautore sperimentale, onirico e visionario, Tim Buckley nella sua breve vita non ebbe mai un riscontro commerciale di alto livello, rimanendo relegato tra i personaggi cult della scena musicale. Jeff incontrò il padre una sola volta quando aveva 8 anni, poco prima della sua morte per overdose. Seppure dotato di una vocalità per certi versi simile alla sua, Jeff musicalmente è figlio della sua generazione, anche se ama i classici come Bob Dylan di cui farà molte cover e soprattutto Leonard Cohen, la cui Hallelujah lo porterà al riconoscimento mondiale tanto che molti giovani penseranno l’avesse scritta lui. Jeff Buckley si forma nei club di New York, gli stessi frequentati trent’anni prima dal padre, ha una visione poetica e romantica e una voce capace di spezzare il cuore più duro. Il disco fa breccia tra gli artisti della vecchia generazione: Bob Dylan definisce Jeff “uno dei grandi cantautori della decade”, mentre David Bowie chiama Grace “uno dei dieci dischi che mi porterei in un’isola deserta”. La sera del 29 maggio 1997, mentre si trova a New Orleans per registrare l’atteso secondo disco, Jeff Buckley si tuffa vestito nel Mississippi, venendo investito dalle onde di una imbarcazione. Il suo corpo verrà ritrovato il 4 giugno. La maledizione paterna lo aveva raggiunto.

1. Jakob Dylan, Bringing down the Horse (The Wallflowers), 1996

Di tutti i figli d’arte, è quello che ha ottenuto il maggior successo commerciale e il maggior riconoscimento, nonostante non abbia inciso un disco a suo nome fino al 2008, preferendo nascondersi dietro il “moniker” dei Wallflowers, una band nata a fine anni 80 e che debutta nel 1992, i cui musicisti cambieranno in ogni disco e di cui è sempre stato il leader e l’autore di tutte le canzoni. Per nulla derivativo del padre, piuttosto di Bruce Springsteen e di Tom Petty, dopo un esordio passato inosservato, grazie alla brillante produzione dell’antico sodale di Bob Dylan, T-Bone Burnett, sforna uno dei più bei dischi del decennio, Bringing down the horse, un prodotto di classic rock dai sapori vintage, dalle chitarre in primo piano e dagli scintillanti tocchi di Hammond, con una serie di brani perfettamente radiofonici ma anche fuori da ogni moda del momento. Il disco vende oltre sei milioni di copie in tutto il mondo e vince due premi Grammy. Il resto della carriera non avrà il medesimo successo, ma l’ex bambino per il quale il padre scrisse Forever Young è ancora oggi una certezza.