La decisione del Tribunale di Milano sul caso Risanamento ha stabilito in maniera rilevante il confine fra azione giudiziaria e crisi aziendale. I giudici della sezione fallimentare hanno deciso di lasciare alle capacità autoregolamentatorie del mercato la ricerca di una soluzione alla crisi della società che, pur in presenza di una elevata leva finanziaria, gestisce un importante progetto di sviluppo. Nello stesso tempo, la responsabilità di portare a buon fine la vicenda è stata interamente accollata alle banche, che dovranno ora fare di necessità virtù.
Se il timore del fallimento, e della conseguente attività di liquidazione, ha spinto il ceto creditorio ad accettare proposte apparentemente “indecenti”, ora che la decisione è stata assunta, le stesse potranno far valere le ragioni dell’economia, sia limitando le loro perdite che favorendo lo sviluppo.
D’altra parte le maggiori responsabilità per la situazione creatasi é sicuramente da addebitare proprio a loro: esse hanno concesso credito al gruppo Zunino. Ovvero, esse hanno valutato e dato fiducia a un progetto, che non sarebbe stato realizzabile senza il loro supporto: l’assunzione attuale di formali impegni è quindi solo la conseguenza di queste scelte precedenti.
Semmai, lo sfiorato fallimento dovrebbe farci domandare quale ruolo abbia avuto la vigilanza di Banca d’Italia, e se i terminali della Centrale Rischi siano adeguati a proteggerci dai crack, almeno fino a quando il governatore Draghi non andrà alla Bce.
Ma l’esperienza di Risanamento potrebbe essere persino benefica per il sistema bancario. Occorre che le capacità analitiche degli organi decisionali centrali siano in qualche modo trasmesse in periferia. Situazioni meno gravi di Risanamento, ma con le stesse problematiche, sono diffusissime anche al di fuori della Borsa: piccole e medie imprese, con debiti formalmente scaduti, per le quali occorre individuare soluzioni articolate, ma che alla fine richiedono solamente di riproporre la fiducia a suo tempo concessa.
I dati trimestrali delle grandi banche si presentano oggi meglio delle attese, in particolare grazie alle operazioni finanziarie rese possibili dalla crisi, ma prima o poi gli utili dovranno incominciare a provenire normalmente da finanziamenti concessi e restituiti con gli interessi. Come si è evitato il fallimento di Risanamento, così occorre evitare di far fallire migliaia di altre aziende.
Solo rivalutando l’attività del banchiere a tutto campo – ruolo per il quale non basta sedere nel Consiglio di una Banca – si potrà eliminare definitivamente il dubbio che serpeggia: che sia solo il principio del “too big to fail” o, peggio, della protezione degli interessi forti, ad aver prevalso.
E, trattandosi di azienda quotata, andrebbe fugato anche il dubbio che la Consob abbia chiuso il secondo occhio, essendo da tempo orba di uno. Per quale motivo in piena vicenda giudiziaria, e persino nel corso stesso dell’udienza fallimentare, il titolo é stato regolarmente quotato, e non sospeso in attesa di notizie o dell’asta di chiusura? Perché le informazioni sull’andamento della crisi andavano cercate nei giornali o nelle aule del tribunale, e non sul sito di Borsitalia?
Così un piccolo gruppo di operatori ha potuto facilmente far oscillare il prezzo nella giornata per circa il 25%. Piccola cosa, per le dimensioni del flottante, ma grande segnale – negativo – per gli investitori, circa la serietà del mercato e dei suoi controllori.
Speriamo che le banche si rendano conto che, per rientrare dall’investimento, ormai miliardario in azioni Risanamento, questa volta devono essere loro a conquistarsi la fiducia e ottenere “credito”. Dai risparmiatori.