Gli interventi di Gianni Credit del 2 marzo e di Carlo Regoliosi del 5 hanno aperto la riflessione sul tema dei bilanci societari, a partire dal caso Telecom.

Nei prossimi giorni, tutte le società quotate, e in particolare le banche, dovranno rendere pubblici i loro bilanci 2008. Questo dovrebbe significare far conoscere a tutti la “verità” sulla loro situazione, patrimoniale ed economica, ma – come pare emerga dalle prime letture – le verità saranno molto flessibili e, ancora una volta, con il silenzio delle autorità di vigilanza, si dovranno interpretare numeri e affermazioni, con il dubbio che qualcuno non dica tutto.

Il falso in bilancio è parola grossa, ma se due più due per qualcuno fa tre e altri fa cinque (il quattro è molto raro) allora i dubbi degli investitori – espressi dai prezzi di mercato, stracciati anche se relativi a società definite buone – sono rilevanti. La fiducia non pare regnare neanche nei bilanci patinati delle blue chip, a prescindere dai risultati mostrati.

Ma partiamo dall’origine. Nel 1500 il frate francescano Luca Pacioli inventa la contabilità (la cosiddetta partita doppia), e il bilancio assume il ruolo di strumento per aiutare l’impresa – il commercio essenzialmente – a comprendere il proprio funzionamento e a far quadrare i conti.

A quel tempo, due più due fa quattro: se in cassa ci sono solo tre scudi, qualcuno se ne è portato via uno; non è necessario invocare l’etica, basta l’aritmetica.

Nel tempo, cambia l’economia (diventa globale, si scoprono il nuovo mondo e le risorse dell’Asia) e il bilancio si articola in maniera sempre più complessa. Interviene lo Stato a dettare leggi e regole, perché occorre far pagare le tasse agli imprenditori, che si organizzano in società e nominano dei delegati alla gestione (amministratori) da cui pretendono il rendiconto. E infine, ecco i mercati finanziari che forniscono agli investitori forme di controllo per favorire l’impiego sociale del risparmio, sancito, in Italia, dall’ art. 47 della Costituzione.

A questo punto il bilancio è diventato “una rappresentazione “ della realtà aziendale, basata sui numeri che scaturiscono dalla contabilità, ma “interpretata” – in accordo a norme e leggi – alla luce degli obiettivi degli amministratori e alla necessità di mettere in evidenza, o in ombra, alcuni aspetti. L’arbitrarietà degli amministratori nelle scelte è ampia: i risultati finali sono numeri, all’apparenza perfetti e asettici, ma in realtà forniscono solo una “lettura” dell’impresa.

Crediti e debiti sono numeri in apparente equilibrio, il valore delle merci in magazzino è ben consistente, e l’avviamento sta lì a rappresentare il valore immateriale inespresso delle potenzialità dell’impresa. Ma se i creditori non pagano, se le merci non si vendono e se il futuro è ancora da portare a realizzazione, ecco il patrimonio aziendale (numerico) evaporare e il valore del titolo ridursi alla decima o centesima parte.

Allora cosa dovrebbero fare gli amministratori? Sarebbe semplice: valutare realisticamente il valore delle poste di bilancio, spiegare agli investitori le ragioni delle loro scelte e, se i numeri precedentemente adottati sono stati sovrastimati, riconoscere l’errore. Il valore aggiunto della chiarezza e della sincerità aumenterebbero comunque il prezzo del titolo a prescindere da eventuali congiunture negative. Il mercato aggiungerebbe una posta non contabile all’attivo: la fiducia.

Ma questo metodo farebbe emergere anche problemi pregressi, non solo errori ma anche, forse, pratiche scorrette e conflitti d’interesse fra stakeholder. E allora ecco l’idea tutta italiana di ricorrere ai professori universitari, privi di “aritm-Etica”, per effettuare il calcolo del “valore recuperabile”, laddove evidentemente il valore attuale non c’è, e quindi l’ossimoro regna… certificato dai buoni maestri.

Per poter valutare il bilancio Telecom, e quello delle altre grandi società, basterebbe invece che amministratori, sindaci e revisori ci confermassero di aver adottato il principio di Fra’ Luca: «Mai si deve mettere in dare che quella ancora non si ponga in avere, e così mai si deve mettere cosa in avere che quella ancora quella medesima con suo ammontare non si metta in dare. E di qua nasci poi al bilancio che del libro si fa: nel suo saldo tanto convien che sia il dare quanto l’avere».