Molti errori sono stati fatti negli anni Novanta per far entrare l’Italia nell’euro e oggi si sono trasformati in più debito, nascosto dai conti ufficiali, e in maggiori interessi in un’area molto grigia, che al Tesoro solo poche persone sono in grado di spiegare e interpretare. È probabilmente questa la ragione dell’iniziativa estemporanea del Governo di inserire una norma specifica sui contratti derivati, stipulati dallo Stato, nella Legge di stabilità. Gli stessi ammontano a un valore nozionale (debito equivalente) di 160 miliardi, il 10% dei titoli in circolazione, e sono, al contrario di Btp, Bot e simili, esclusivamente in mano dei grandi gruppi finanziari, principalmente esteri.



I dati di riferimento, però, non sono stati forniti alle Camere dall’on. Morando. Possono essere cercati in una relazione del Tesoro, consegnata nei primi mesi del 2013 alla Corte dei Conti che aveva inviato la Guardia di finanza per recuperare documentazione relativa a uno specifico contratto con Morgan Stanley, chiuso con oltre 2 miliardi di perdita. Dalla relazione emergerebbero almeno ulteriori 8 miliardi di perdite implicite in questi strumenti, che però sono “affogate” annualmente nei pagamenti alla voce interessi sul debito pubblico.



Il Governo ricorda che la revisione dei contratti in derivati è una pratica normale e diffusa tra gli emittenti. Ma resta il dubbio che quelli originari coprissero un debito camuffato: prassi “perversa” adottata sia da paesi euro in crisi (ad esempio, la Grecia), sia da banche private (vedi Monte dei Paschi).

La norma è contenuta nell’articolo 33 del ddl di stabilità all’esame di palazzo Madama e, nel dettaglio, è finalizzata a permettere, mediante l’utilizzo della gestione di Tesoreria, l’adozione di un sistema di garanzie per la gestione delle operazioni in strumenti derivati del Tesoro. La relazione di accompagnamento chiarisce che i beneficiari sono essenzialmente le controparti finanziarie alle quali, fra l’altro, va garantita per legge anche l’impignorabilità delle eventuali somme.



Certamente è l’ennesimo regalo al sistema finanziario internazionale che continua a tenere sotto scacco i governi italiani, e che Renzi avalla impotente. Ma favorire la stipula e la rinegoziazione di contratti, la cui complessità e singolarità non è oggetto di dettagliata informativa al Parlamento, consente anche di regolarizzare innanzitutto i comportamenti passati e incentivarli in futuro.

L’assoluta oscurità della gestione finanziaria del debito pubblico (dove un “errore” a favore del creditore dell’un per mille vale quasi 2 miliardi di euro – di tasse!) affida ai funzionari del Tesoro responsabilità enormi e il relativo rischio di danni erariali. E, ovviamente, il conflitto di interessi in cui si trovano costantemente i consulenti finanziari del Tesoro e le controparti bancarie lascia aperti i dubbi sulla correttezza del comportamento del “mercato” nell’individuazione dell’equilibrio.

Il Movimento 5 Stelle ha scoperchiato in Commissione parlamentare la pentola, ma la debolezza attuale dei pentastellati rischia di far sottovalutare il problema. Sarebbe bene che i parlamentari (indipendenti, se esistono) chiedessero un’audizione pubblica specifica per accertare chi, e come, gestisce effettivamente i 1.600 miliardi, con quali regole e con quali strumenti opera la Divisione responsabile della gestione del debito.

L’approfondimento delle centinaia di contratti, non solo derivati, che il Tesoro ha negli anni stipulati potrebbe fornire spunti per futuri risparmi e forse offrire argomenti per “rinegoziare” sul serio i rapporti con le istituzioni finanziarie.