Mentre la vicenda Telecom entra nel vivo dei passaggi formali tramite le assemblee convocate per metà dicembre, ritorna all’attenzione della cronaca una delle prime operazioni scaturite dalla privatizzazione del ’99: Seat Pagine Gialle. Recentemente la Procura ha contestato il reato di bancarotta ai vecchi amministratori, senza che nel frattempo – dieci anni e più – alcuna autorità, e in particolare la Consob, sia intervenuta a sanzionare o, almeno, sindacare la gestione economico- finanziaria dell’enorme capitale, anche umano e commerciale, dello storico ramo d’azienda degli elenchi telefonici e di pubblicità.

Ai risparmiatori vennero sottratti alcuni miliardi di euro e l’azienda è stata poi ridotta a un ruolo marginale. Quella che poteva diventare la Google italiana è stata lasciata, a prescindere dai dettati normativi, al “libero mercato” dei fondi d’investimento e dei consulenti, che ne hanno fatto man bassa. 

A noi , oggi, sembrano ripetersi gli stessi scenari di allora. La Telecom è una grande azienda, con un grande capitale umano e tecnologico, ma la sovrastruttura contabile/finanziaria prevale  sulle strategie  industriali. In quest’ottica, soci, banche e amministratori perseguono di volta in volta obiettivi di breve periodo, senza che alcun rappresentante delle istituzioni pubbliche intervenga. Non si tratta di difendere l’italianità, non più esistente in termini di assetti societari, ma di costruire il ruolo di un’azienda che ancora opera essenzialmente in Italia e dovrebbe farlo a beneficio dei residenti, godendo del patrimonio, storicamente  pubblico: la rete e la clientela.

Il tema tariffario è solo un aspetto, e forse marginale. La capacità di innovare e offrire nuovi servizi dovrebbe essere essenziale, anche se per perseguire questo obiettivo dovessimo rivolgerci a uno “straniero”. Ma quando si è fatto avanti l’imprenditore Xavier Niel sono immediatamente scattate le difese di sistema. Presentato come il secondo uomo più ricco di Francia, forse per farlo apparire un finanziere senza scrupoli, Niel è innanzitutto un grande innovatore. La sua fortuna economica è conseguenza della sua capacità di innovare su grande scala e, forse, sarebbe l’uomo giusto per orientare la politica industriale di Telecom.

Ha creato a Parigi un nuovo modello di Scuola, la “42″, che mette in campo le tecnologie digitali per una rivisitazione del rapporto discenti/ docenti. Potrebbe, magari, lanciare la Telecom Open University o, comunque, rivoluzionare l’organizzazione del pachiderma di Rozzano. Certo è che ha scatenato l’immediata reazione del Consiglio di amministrazione: diminuire la sua quota potenziale senza mettere mano ai portafogli degli attuali soci.

La soluzione trovata è la conversione – obbligatoria – delle azioni di risparmio in azioni ordinarie. Le azioni di risparmio rappresentano una  forma di investimento tutelato e garantito nella redditività, tant’è che negli ultimi anni questi titoli hanno percepito un dividendo al contrario di quelli ordinari. La conversione obbligatoria elimina tale privilegio, mettendo così a carico dei risparmiatori il costo della difesa da parte degli attuali soci, eventualmente disposti ad aggregarsi attorno a Vivendi, affinché nulla cambi.

A questo punto sono solo dei corollari: che gli azionisti di risparmio vengano defraudati dei dividendi e dei loro diritti patrimoniali – valutabili oltre il miliardo di euro complessivamente -, che la documentazione pubblicata sia insufficiente e fuorviante, o che  non sia stata richiesta una perizia del valore economico del titolo. E, ovviamente, è inutile attendersi che la Consob provveda a tutelare gli investitori, richiedendo completa informazione e pronunciandosi nel merito: forse dobbiamo attendere altri dieci anni, come nel caso Seat, perché sia fatta chiarezza anche su questa ulteriore operazione.

 

P.S.: Nelle more dell’assemblea,  chi scrive ha avviato la procedura  di sollecitazione deleghe per esprimere voto contrario il 17 dicembre tramite questo sito con l’obiettivo di ampliare il dibattito.