Ammontano a oltre 200 miliardi di dollari le sanzioni complessivamente applicate negli Usa alle banche, anche a seguito di accordi transattivi, per varie manipolazioni e condotte irregolari emerse dopo la crisi del 2008. La manipolazione dei tassi e gli accordi per alterare i valori finanziari sono fra i comportamenti ricorrenti di queste grandi strutture finanziarie che interpretano il libero mercato come un equivalente della giungla, ma che trovano, almeno negli Usa, chi ex-post prova a ristabilire il prevalere della legge. I danni sono stati fatti, ma l’intervento delle autorità mira a scoraggiare il ripetersi dei comportamenti sbagliati e ristabilisce la fiducia nel sistema.
Eppure, persino negli Stati Uniti l’attività di controllo comincia ad essere considerata insufficiente. In questi giorni un ex funzionario di Deutsche Bank che aveva consentito alla Sec di comminare una multa di 50 milioni, grazie alle informazioni volontariamente fornite, ha rinunciato alla ricompensa di circa 8 milioni prevista per chi contribuisce a far emergere gli scandali finanziari. La motivazione da lui fornita pubblicamente è che alla fine le multe sono a carico delle banche, e quindi dei loro azionisti, da considerarsi piuttosto fra le vittime dei reati, mentre i manager responsabili non sono stati perseguiti e, anzi, hanno incassato bonus milionari, proprio grazie alle falsificazioni effettuate.
Come raccontiamo da tempo su queste pagine, la distruzione del patrimonio in fiducia che le istituzioni finanziarie hanno nel tempo accumulato finisce per essere molto maggiore del danno borsistico misurabile leggendo le quotazioni. E se gli errori degli amministratori si riflettono alla fine nei bilanci e sui listini, la mancata ricerca della verità, dei responsabili e di nuovi approcci distrugge i rapporti sociali e rende impossibile ogni forma di ripresa. E in Italia nessuno – salvo questo quotidiano – sembra interessato ad approfondire. Eppure qui avremmo ben altro da dire.
Anziché multare o condannare, la nostra Corte dei Conti prova solo a proporre una transazione a Morgan Stanley per il derivato anomalo che ha determinato una perdita di 4 miliardi. Una goccia nel mare del debito pubblico e della sua opaca gestione. Ovviamente, Morgan Stanley rifiuta e contesta: il contratto era stato firmato dall’allora Governatore Draghi, che già nel 2013 aveva pubblicamente difeso la gestione dei derivati da parte del Tesoro.
Ma allora, i giudici della Corte dei Conti raccontano sciocchezze e perseguitano una povera Banca che ha già dovuto pagare alcuni miliardi di multe negli Stati Uniti, ma che giura di avere sempre tenuto comportamenti corretti in Italia? E, ancor di più, perché gettare dubbi sulla gestione del debito pubblico dal momento che le controparti bancarie sono per loro natura – in Italia – al di sopra di ogni sospetto?