Eliminando i nostri dubbi, la Corte dei Conti sta compiendo egregiamente il proprio lavoro nell’indagare la portata del danno erariale causato dalla gestione impropria del debito pubblico. Al momento si stanno approfondendo i rapporti contrattuali con Morgan Stanley per il maxi pagamento di circa 3 miliardi nel 2011, scaturito dall’asserita necessità di adempiere a un contratto sottoscritto nel 1999. Con tale contratto derivato, ovvero non direttamente basato su un prestito allo Stato, si stabiliva una “scommessa” fra la banca e il Tesoro sui tassi futuri, senza ragioni economiche sottostanti.

Se si fosse trattato di un piccolo risparmiatore, avremmo detto che era stato truffato, ma evidentemente la Corte pensa che i dirigenti del Tesoro avessero le competenze per ben valutare la “proposta indecente” di Morgan Stanley e che potrebbero quindi essere responsabili quanto meno di imperizia. A loro e alla banca vengono richiesti 4 miliardi di risarcimento, ben piccola cosa rispetto al debito pubblico di oltre duemila, ma pur sempre una cifra che meriterebbe maggior attenzione. E poi il caso potrebbe dare l’opportunità di rivedere i rapporti fra Stato e sistema finanziario internazionale.

Già nel 2011 la Corte ha avuto modo di interessarsi di una simile vicenda nel caso del buco da 100 milioni nel bilancio di Poste Italiane originatosi a partire dal 1999: in quel caso il dirigente del settore Finanza, benché assolto in sede penale, è stato condannato a risarcire 30 milioni di euro, mentre JP Morgan – altra banca, è solo omonimia – si è tirata fuori dal contenzioso con Poste versando transattivamente 46 milioni.

Il procedimento ha reso evidente che vi era consapevolezza della speculatività delle operazioni e che queste fossero al di fuori dello scopo sociale dell’ente. Anche a seguito degli atti di giudizio è emerso che in quel periodo – ricordiamo di approccio all’euro – tutte le grandi banche tentavano di inserirsi in questo mercato delle scommesse, di fatto contro l’Italia e i suoi enti.

Se non una prova, almeno abbiamo un indizio che nel 1999 Morgan Stanley avrebbe potuto, diciamo così, tentare di forzare la mano del Tesoro a sottoscrivere un contratto capestro. Poi, la chiusura e l’incasso nel 2011 potrebbero essere state una scelta di opportunità prima che la situazione dell’economia italiana peggiorasse.

Ma allora chi dovrebbe spiegare come andarono le cose? Fra i convocati vi sono l’attuale direttore generale del Tesoro La Via, che ricopriva allora l’incarico di direttore del debito, e i direttori generali successivi, Siniscalco e Grilli, che nel frattempo sono stati assunti proprio da Morgan Stanley e da JP Morgan. Nulla di illegale, ma potranno essere chiarificatrici le loro testimonianze? Potranno servire a far condannare a un maxi risarcimento i loro datori di lavoro, ora che fra l’altro devono intervenire per evitare il fallimento del Monte dei Paschi.

E allora perché non chiedere direttamente al direttore generale del Tesoro all’epoca dei contratti derivati incriminati? In fin dei conti anche Draghi è stato successivamente assunto da una grande banca internazionale, Goldman Sachs. Forse, l’attuale incarico di Presidente della Banca centrale europea lo tiene immune dall’attenzione della Corte dei Conti, o forse il suo chiarimento potrebbe essere troppo dirompente e gettare una luce diversa sulla complessiva gestione del debito pubblico italiano che, per i soli derivati chiusi, negli ultimi tre anni ci è costato 25 miliardi in più.