La drammatica vicenda dei due neonati uccisi e sotterrati dalla propria madre nel giardino di casa ha risvolti giuridici non indifferenti.
Il Pm di Parma, riferiscono le cronache, ha per ora contestato a Chiara solo l’omicidio per l’uccisione del suo secondo figlio, nato certamente vivo, mentre si è in attesa degli accertamenti autoptici per sapere se il primo bimbo, concepito un anno fa, era veramente nato morto come sostiene la madre.
Chiara è stata opportunamente posta agli arresti domiciliari e non tradotta in carcere, difettando il pericolo di fuga e il rischio di commissione di reati della stessa natura.
Ma si tratta di omicidio o infanticidio? La differenza non è di poco conto.
Il reato di omicidio è punito con una pena minima di 21 anni e, con le aggravanti, come quella della premeditazione, si rischia l’ergastolo. Inoltre, dopo la riforma del 2019, è precluso il ricorso al giudizio abbreviato (processo allo stato degli atti, senza il dibattimento) con la conseguente diminuzione di pena di un terzo.
L’infanticidio è punito invece con la reclusione “solo” da 4 a 12 anni. E con il giudizio abbreviato la pena è diminuita di un terzo.
Ma quando ricorre il delitto di infanticidio?
Perché si possa parlare di infanticidio anziché di omicidio occorre che la madre (e solo la madre) cagioni la morte del proprio figlio subito dopo il parto. Come sembra essere accaduto per il delitto di Parma.
Ma deve sussistere anche un’altra condizione e cioè che il fatto sia determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto. Per tornare al caso di Chiara, sembra che la giovane madre di Parma fosse inserita in un contesto familiare e sociale regolare e connotato da agiatezza: padre imprenditore, madre impiegata, la ragazza frequentava l’università con profitto.
Parrebbe quindi non sussistere la condizione di abbandono richiesta dalla norma. Ma potrebbe non essere così. La giurisprudenza della Corte di Cassazione si è più volte pronunciata spiegando che la situazione di abbandono materiale e morale non deve essere interpretata in senso oggettivo, ma deve essere letta in chiave soggettiva, essendo sufficiente la percezione di totale abbandono avvertita dalla donna nell’ambito di una commessa esperienza emotiva e mentale, quale quella appunto che accompagna la gravidanza e poi il parto.
Ecco allora che andranno approfondite le ragioni che hanno indotto Chiara a non confidare a nessuno, neppure al fidanzato e ai propri genitori, lo stato di gravidanza in cui versava e a non chiedere aiuto e consiglio ai presidi territoriali che accompagnano le madri che vivono con disagio e preoccupazione la propria condizione di future madri. Consulenti e psicologi certamente aiuteranno i magistrati a inquadrare a la personalità di Chiara per cercare di comprendere le ragioni della scelte da lei operate e meglio indagare quella che, a prescindere dalle ricadute giuridiche e processuali che potranno derivarne, è certamente una vicenda caratterizzata da una indubbia solitudine esistenziale che, nell’epoca dei social e delle false amicizie di Facebook, deve interrogare ciascuno.
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