La domanda è forse più radicale di quella che uno si aspetta: perché non bisognerebbe farlo? Uccidere nella notte il fratellino di 12 anni e poi i genitori, seppellire vivi i propri figli appena nati e lasciarli morire nella polvere del giardino: perché non bisognerebbe farlo? La nostra società si mostra ancora una volta scossa perché a Paderno Dugnano accadono cose inspiegabili o perché, a Traversetolo, vanno in scena terribili orrori. Gli uomini ritengono di aver costruito un mondo in cui le leggi e le strutture sociali possano tenere al riparo dal male le cose più importanti, le persone più care. Eppure, non bastano cinque anni di educazione civica per addomesticare le tenebre del cuore, non bastano decine di spot televisivi o messaggi sui social per persuadere l’anima di un individuo a non uccidere.



Perché non bisognerebbe farlo? Un motivo, a dire il vero, ci sarebbe. Non le regole, non le leggi, non la pietà, ma aver colto che nello sguardo del fratello c’è il riverbero del mio sguardo, nelle parole della mamma e del papà c’è l’incombere di una presenza più grande, nel vagito di mio figlio che nasce c’è l’affacciarsi nella storia di un mistero che svela me a me stesso e mi racconta.



Bisognerebbe, insomma, avere la percezione dell’Altro, dell’Oltre. Allora si potrebbe smettere di uccidere, di torturare, di infierire sui corpi che non conosciamo. Senza la percezione di questo mistero, l’uomo resta un animale in balia della propria oscurità.

Per secoli, un’imperfetta civiltà cristiana ha continuato a praticare la violenza nel dolore, a pentirsi delle azioni malvagie, a desiderare di poter vivere con verità uno sguardo all’altezza dell’umano. Poi vennero le guerre di religione, che forse passarono anche da Paderno e da Parma, e che instillarono negli uomini del XVII secolo la convinzione che era la religione la causa di tutti i mali e che religione vera non era rapporto del mistero, ma pratica della giustizia e della carità. Si pensò di costruire un sistema perfetto, senza Dio, in cui gli uomini avrebbero potuto abitare semplicemente affidandosi alla ragione. Come se la ragione fosse capace di arrivare fino al culmine ultimo della vita, fosse in grado di smuovere la libertà.



Kant lo capì perfettamente: la strada della conoscenza raramente si può incontrare con quella dell’etica. L’uomo – lasciato in balia della propria conoscenza – non sarebbe diventato più buono. Soltanto più violento. E questo vento capriccioso si fece strada per lunghi secoli in quello che restava dell’Europa cristiana. Fu un’ecatombe che insanguinò l’Ottocento con i suoi nazionalismi, che distrusse il Novecento con i totalitarismi. L’essere umano scomparve, rimasero il cittadino, le leggi, la comunità che pensa che educare sia ripetere delle parole. Arrivò il tempo della solitudine, di un male non più immerso in nessuna storia di bene, in nessuna storia di grazia. E tutto deflagrò. Le nefandezze avevano sempre abitato in Occidente, ma ogni nefandezza cercava perdono, redenzione, cambiamento. A Paderno no, in provincia di Parma no.

Come si cura questo male? Come si supera questo orrore? Non c’è altra strada che il perdono. La giustizia non serve a niente in casi come questi, mentre il perdono genera consapevolezza, risveglia l’antico germe del mistero. Gli educatori di oggi non sono coloro che sanno o che fanno, non sono coloro che progettano o discutono, ma coloro che abbracciano e ricominciano. Come fa Dio. Come farebbero quei due bambini sepolti vivi se potessero prendere parola: essi non vorrebbero l’orrore della condanna, ma la sorpresa dell’amore. Sembra difficile, eppure perché non farlo?

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