Israele contro il Vaticano. L’ambasciatore di Tel Aviv presso la Santa Sede ha replicato duramente al segretario di Stato cardinale Pietro Parolin, che ha definito sproporzionata la risposta dell’IDF all’attacco del 7 ottobre. Ha bollato la sua dichiarazioni come “deplorevole”, anche se poi si è parlato di un difetto di traduzione dall’inglese virando sul termine “sfortunata”. Un botta e risposta che rientra nelle scaramucce diplomatiche che negli anni hanno segnato le relazioni tra i due Paesi, ma che stavolta, spiega Massimo Introvigne, sociologo fondatore del Cesnur e del sito Bitter Winter, esprime un sospetto nei confronti della “politica estera” di papa Francesco, non schierata con l’Occidente, come soprattutto gli americani vorrebbero, ma equidistante anche nei confronti di Cina e Russia.
Dal governo Netanyahu, intanto, arrivano risposte di netta chiusura sull’ipotesi di uno Stato palestinese, fulcro del piano che Paesi arabi e USA stanno approntando per risolvere la questione palestinese. Il ministro del Likud Chikli lo rifiuta minacciando la cancellazione degli accordi di Oslo, il collega di governo Smotrich, del partito nazionalista Sionismo religioso, vuole una presa di posizione decisa dell’esecutivo.
I rapporti con gli Usa, però, non arriveranno alla rottura: Biden, in vista delle presidenziali 2024, deve tenere conto degli elettori ebraici, fondamentali in Stati importanti come la Florida. Per questo fino alle elezioni Israele non si vedrà imporre condizioni.
Come va letta la dura risposta dell’ambasciatore israeliano alle dichiarazioni di Parolin: normali schermaglie diplomatiche o qualcosa di più?
A un primo livello di lettura è un po’ il gioco delle parti: dagli anni 40 la Santa Sede tenta di mantenere una posizione equidistante. Riconosce le ragioni di Israele ma tiene conto del fatto che ci sono molti cristiani in Palestina e nei Paesi arabi confinanti. Di solito alle dichiarazioni del Vaticano seguono proteste di Israele. Stavolta però la protesta è stata più forte di altre volte.
Perché hanno alzato i toni? Qual è l’altro livello di lettura?
Lo spiego con un aneddoto. A fine gennaio ero a Washington all’International Religious Freedom Summit, una grande kermesse sulla libertà religiosa cui partecipa anche il Dipartimento di Stato USA. In queste riunioni, non solo negli Stati Uniti ma nella comunità che ha a cuore la libertà religiosa, si percepisce nell’aria una critica al Vaticano per i suoi atteggiamenti nei confronti della Cina e della Russia. Quello che soprattutto gli americani obiettano (esprimendo un malessere arrivato anche a Israele) è che ci sono molti cattolici pure a Taiwan ma non si sentono dal Vaticano voci di solidarietà a Taipei e di critica a Pechino. Ci sono cattolici anche in Ucraina, ma questo non spinge la Santa Sede a condannare in modo più deciso la Russia.
Qual è il punto di queste critiche?
Benedetto XVI, quando parlava della Palestina, teneva la consueta linea prudente, ma era percepito come un uomo che, quando parlava dell’Occidente, diceva “noi”. Francesco, invece, è percepito come un uomo che non è chiaro da che parte stia; si sospetta che non sia esattamente schierato con gli USA e i loro alleati, Israele compreso. Un disagio in gran parte americano, che attraversa la Conferenza episcopale statunitense. In questa lettura la geopolitica di papa Francesco non è più vista come chiaramente a favore delle democrazie occidentali e contro le dittature, ma equidistante. In questa chiave, ogni volta che il Vaticano dice qualcosa c’è uno scatto di ulteriore diffidenza. Forse questo spiega i toni più accesi della risposta israeliana a Parolin.
Dal governo Netanyahu sono arrivate nette prese di posizione nei confronti dell’ipotesi di uno Stato palestinese, sostenuta dai Paesi arabi e dagli USA. Come mai gli Stati Uniti ufficialmente appoggiano questa soluzione e nello stesso tempo, di fatto, non mollano né contrastano fino in fondo le iniziative militari di Israele?
Già in occasione delle ultime elezioni gli analisti politici americani hanno scoperto che, seppure gli ebrei siano molto numerosi, non sono trascurabili neanche gli elettori americani di fede musulmana. Se poi a questi si aggiungono gli arabi cristiani che vivono negli Usa e che non hanno simpatie per Israele, arriviamo a un numero simile a quello degli ebrei.
Ma queste due comunità come votano tradizionalmente?
Votano per entrambi i partiti, democratici e repubblicani. Gli arabi americani, ad esempio, non dovrebbero avere simpatie per Trump, che è molto filoisraeliano, ma hanno una visione conservatrice su temi morali, come riguardo agli omosessuali, e hanno difficoltà a votare per i democratici. In Florida c’è una fortissima constituency di pensionati ebraici che arrivano da New York; è uno Stato decisivo e il voto ebraico è quello che fa la differenza. Ma c’è anche un voto arabo. Sia Biden che Trump ne tengono conto e sono meno oltranzisti nel sostenere Israele di quanto furono nelle passate elezioni.
La posizione Usa quindi dipende solo da questioni elettorali interne?
Bisogna fare anche considerazioni di politica mediorientale. Tutto il mondo, escluso Israele, è a favore della formula “due popoli due Stati”. Tradurre in pratica questa formula è molto difficile. Il secondo Stato chi lo amministra? Se toccasse ad Hamas, anche se in seguito a elezioni che sancissero la sua vittoria, Israele lo invaderebbe. Abu Mazen e l’OLP godono di scarsa fama presso i palestinesi come soggetti corrotti e che si sono arricchiti alle spalle del loro dramma.
Come se ne esce allora?
Gli USA stanno lavorando perché in Cisgiordania emerga una leadership alternativa a quella di Abu Mazen, che non sia percepita come venduta a Israele, ma genuinamente palestinese e in grado di andare a caccia di consensi anche a Gaza. Nella Striscia, Hamas ha un consenso non totalitario: molti gli imputano di averli trascinati nella situazione attuale. Certo, ha una sua base: non è solo una presenza militare ma anche un apparato di moschee, scuole coraniche, istituzioni della società civile.
Hamas, insomma, è difficilmente cancellabile?
L’unico modo per eliminarli sarebbe ammazzarli tutti. E Netanyahu lo ha presente. Nel comunicato contro Parolin a un certo punto si dice una cosa terribile ma molto chiara: in media per ammazzare un militante di Hamas bisogna uccidere tre civili, che magari sono anche oppositori dell’organizzazione palestinese. Ammazzarli tutti, quindi, significa passare dalle decine di migliaia di vittime alle centinaia di migliaia. I genocidi non sono una novità, ma il prezzo sarebbe altissimo.
Da dove può venire allora la nuova leadership palestinese, diversa da Hamas, lontana dall’ANP attuale e presentabile sia a livello interno che esterno?
Tra i palestinesi c’è una classe che ha un alto livello di istruzione: medici, avvocati, commercialisti che talora sono esportati nel Paese d’origine. È possibile che in questa classe professionale ci siano persone non compromesse con la lunga onda della corruzione dell’OLP, né con il terrorismo di Hamas. Devono essere facce nuove.
Ma alla fine il rapporto USA-Israele si sta incrinando oppure no?
Non si può incrinare oltre un certo limite: se Biden lo facesse, regalerebbe il voto ebraico a Trump. Fino alle elezioni non ci sarà nessuna rottura. Ci sono ebrei americani critici nei confronti di Netanyahu, ma poi il riflesso della comunità ebraica americana, anche quella liberal, è che, salvo pochi intellettuali, quando c’è una guerra si stringono intorno al governo israeliano, qualunque sia.
Biden quindi fino al voto di novembre non forzerà la mano a Israele?
Prevedo della moral suasion, ma non uno strappo.
Gli Usa non minacceranno Netanyahu di non fornire armi per vedere appoggiata la tesi dei due Stati?
No, avrebbe delle ripercussioni elettorali immediate. Dire una cosa del genere vorrebbe dire perdere la Florida. E lì non vuole perdere nessuno. Israele potrà avere mano libera. Certo, la guerra ha un costo politico ed economico. Non potrà continuare per sempre. Dovrà decidere un obiettivo realistico.
(Paolo Rossetti)
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