Gli americani e gli israeliani hanno evitato la ricerca di una soluzione politica per la guerra a Gaza, lasciando spazio alla sola via militare. Ma così, spiega Filippo Landi, già corrispondente della Rai a Gerusalemme e poi inviato del TG Esteri, si condanna il Medio Oriente a un’instabilità continua che non esclude la possibilità di un allargamento del conflitto anche alle superpotenze. Un tema che hanno posto anche una serie di ex funzionari militari di Israele in una lettera inviata al Congresso USA in occasione del discorso di Netanyahu. Nella missiva accusano il capo del governo di rappresentare un problema per Israele perché la sua politica produce il massimo dell’insicurezza per il Paese. Il primo ministro però, nel suo discorso al parlamento americano, ha parlato di scontro di civiltà, indicando l’Iran come nemico, e di impegno per liberare gli ostaggi, alla fine citati principalmente per giustificare l’imponente risposta militare di Israele all’attacco del 7 ottobre.



Secondo Forbes sarà inevitabile una grande guerra in Medio Oriente, con Israele, Hezbollah e Iran protagonisti, che potrebbe comportare il coinvolgimento di USA, Russia e Cina. Uno scenario da prendere in considerazione?

Il segretario di Stato USA Blinken si è adoperato in questi mesi non per fermare la guerra a Gaza, ma per evitare un allargamento regionale. Una scelta che indica il punto dolente riguardo all’eventualità di un conflitto che coinvolge più attori: la politica americana ha scelto di lasciare a Israele la soluzione militare del conflitto a Gaza, impedendo all’ONU di adoperarsi dal punto di vista politico. Si è pensato di poter risolvere tutto militarmente. Così è stato fatto anche con gli Houthi. Fino a che il problema del conflitto tra Israele e palestinesi non verrà affrontato complessivamente dal punto di vista politico, non si può escludere neanche lo scenario di una sorta di guerra mondiale che nasce da lì.



Cosa ha rappresentato per Netanyahu il discorso davanti al Congresso USA?

L’occasione per allontanare da se stesso e dal suo governo il sospetto che la guerra sia funzionale non agli interessi di Israele ma a quelli personali del primo ministro e del suo esecutivo. Ha voluto riaffermare l’idea che il conflitto, la sua conduzione e i morti siano motivati dalla volontà di garantire l’esistenza di Israele contro un nemico che lo mette in discussione, contro un’organizzazione, Hamas, che è il cancro della situazione e che va sradicata militarmente. Tutto questo senza pensare di giustificare l’estensione delle colonie nei territori palestinesi.



Il suo obiettivo è accreditarsi come uomo di stato e non come chi persegue la guerra per salvare se stesso?

Ci sono interessi personali, ma anche interessi che riguardano il suo governo, che vuole procedere all’espulsione dei palestinesi dai territori e alla loro annessione. C’è però un secondo punto di vista da considerare per capire il senso del discorso al Congresso, quello dei sostenitori americani di Israele, che hanno bisogno di contrastare l’immagine di una classe politica asservita agli interessi di un altro Paese. Vogliono trovare una formula per giustificare il comportamento degli USA e, in qualche modo, il massacro di dimensioni spaventose che si è compiuto negli ultimi mesi.

Nel suo discorso al Congresso, Netanyahu ha ripetutamente fatto riferimento all’impegno suo e del governo per la liberazione degli ostaggi. Un passaggio credibile?

È la risposta a quello che gli americani hanno visto negli ultimi mesi: i familiari degli ostaggi che chiedevano di darsi da fare veramente per i loro cari. Netanyahu, però, non ha detto che la delegazione che doveva tornare al Cairo e a Doha per cercare un accordo per la liberazione non è partita. Il tema degli ostaggi è stato usato come giustificazione del conflitto.

Ha puntato il dito contro l’Iran. Che significato ha il richiamo a Teheran?

Il messaggio è rivolto a Trump: quando era presidente cancellò l’accordo raggiunto da Obama e Biden sul nucleare, ma l’atteggiamento pragmatico che ha ostentato in campagna elettorale annunciando che vuole porre fine alle guerre può anche fare intendere che questa volta nei confronti dell’Iran potrebbe esserci un atteggiamento diverso. Netanyahu ha voluto mettere le mani avanti.

Il premier israeliano non dovrebbe essere scontento dell’arrivo della Harris, ha un marito ebreo e potrebbe indicare come vice Shapiro, governatore della Pennsylvania, ebreo pure lui. La linea rimarrà quella di Biden?

Il passaggio del testimone è in linea con le posizioni dello staff di Biden, che si è mosso intorno alle indicazioni di Blinken. Ci dovrebbe essere una continuità nei fatti. Anche se bisogna tenere conto dei sondaggi. La Harris, che, come vicepresidente, presiede il Senato, non ha assistito al discorso di Netanyahu perché i suoi consiglieri elettorali le hanno suggerito di non appiattirsi sul primo ministro israeliano. Mancavano anche 100 deputati democratici, Biden e la Pelosi. Un tentativo di smarcarsi dal premier israeliano per recuperare quella parte di elettorato critico nei confronti della linea dell’attuale amministrazione con Israele.

Il Jerusalem Post riporta la lettera al Congresso di alcuni ex funzionari di Israele, tra cui l’ex direttore del Mossad Tamir Pardo, l’ex capo dell’IDF Dan Haloutz, l’ex capo della Difesa Moshe Ya’alon, nella quale Netanyahu viene definito una minaccia esistenziale per Israele. Che cosa ci dice una presa di posizione così forte?

La vecchia classe militare e della sicurezza israeliana (le firme sono tutte ex militari ed ex capi del Mossad e dello Shin Bet) ha percepito che in gioco non c’è la difesa di Israele ma la sua espansione, che porta a un permanente scontro con i palestinesi e gli arabi della regione. Il tema della sicurezza è piegato a interessi pesantissimi di carattere ideologico, puntando al controllo totale della Cisgiordania e di Gaza, oltre che a emarginare ciò che resta dell’ANP.

È come se dicessero che la politica di Netanyahu porta Israele alla situazione più insicura degli ultimi anni?

Esattamente. Una parte delle persone che hanno sottoscritto la lettera ha lavorato sotto la direzione di Netanyahu e sono state sostituite da un’altra classe dirigente. Per capire la loro presa di posizione la si deve collegare alla vittoria elettorale del centrodestra che ha portato a un nuovo governo e nuove regole.

L’Egitto consentirebbe all’IDF di sorvegliare il confine con Gaza per controllare il contrabbando di armi. Contemporaneamente ci sarebbe stato un incontro tra USA, Israele e Emirati Arabi Uniti per parlare di una forza che gestisca il dopoguerra nella Striscia. Si comincia a definire il futuro di Gaza?

Intanto bisogna vedere chi vincerà le elezioni USA. Non è detto che la vittoria di Trump sia di giovamento per l’attuale governo israeliano. I messaggi arrivati dal vicepresidente designato Vance hanno confermato il pragmatismo di Trump. Vuole un’intesa con la Russia per chiudere la guerra in Ucraina, cambiare i rapporti con la Cina per evitare un conflitto intorno al caso Taiwan, ma vuole anche adoperarsi per chiudere il conflitto a Gaza. Per quanto riguarda il dopoguerra a Gaza, se riprendiamo quello che è stato scritto, notiamo un affastellarsi di idee che sono state eliminate entro poche settimane, a partire dal rilancio dell’ANP e dall’idea di una forza militare internazionale anche europea, per poi passare a una sola forza araba e a quella di una forza militare dell’Autorità Palestinese addestrata dai consiglieri militari USA.

Contemporaneamente a Pechino si sono riunite le diverse fazioni palestinesi, ritrovando almeno apparentemente una sorta di unità.

In via di principio hanno detto che l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) deve riunire al suo interno le diverse fazioni per poi porre la questione palestinese su un terreno politico. Quattro Paesi hanno appoggiato questo incontro: Cina, Russia, Egitto e Algeria. Più volte è stato chiesto all’UE di farsi mediatore, ma ha scelto la via del totale sostegno a Israele e alla politica USA. Il ruolo della Cina è speculare all’assenza dell’Europa.

(Paolo Rossetti)

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