Benjamin Netanyahu contro tutti: dà il benservito al ministro della Difesa Yoav Gallant, sostituendolo con il ministro degli Esteri Israel Katz e, secondo la stampa israeliana, vorrebbe cambiare anche i capi di IDF e Shin Bet (ma in serata Netanyahu ha smentito). Quali che siano le ragioni di queste decisioni, rappresentano una radicalizzazione delle posizioni del governo. Non per niente, un altro esponente dell’esecutivo, Ben Gvir, ha dichiarato che Gallant doveva essere cacciato perché “ostacolava la vittoria assoluta” di Israele nella guerra. Le intenzioni dell’esercito sono ben note; lo dimostrano le decine di villaggi rasi al suolo in Libano, compresi i cimiteri.
Praticamente, racconta Camille Eid, giornalista libanese residente in Italia e collaboratore di Avvenire, gli israeliani stanno facendo tabula rasa, come se volessero rendere impossibile agli abitanti del sud del Libano ritornare nelle loro case. Forse la zona di sicurezza al confine fra i due Paesi se la vogliono creare così. E mentre si attende di sapere quale sarà il nuovo corso degli USA, incombe ancora la possibilità di un attacco iraniano, anche se non è chiaro il motivo per cui Teheran dovrebbe spingersi fino a tanto.
Perquisizioni nell’ufficio di Netanyahu, il ministro della Difesa Yoav Gallant licenziato; addirittura, secondo Times of Israel, i capi dell’IDF e dello Shin Bet in procinto di essere sostituiti. Il governo è arrivato alla resa dei conti interna?
Le indagini su una possibile fuga di notizie dall’ufficio di Netanyahu e sulla presunta falsificazione di verbali di riunioni di guerra erano note, così come le beghe del premier con il procuratore generale Gali Beharav-Miara, con reciproche promesse di licenziamento. Anche l’allontanamento di Gallant non è un fulmine a ciel sereno. Lo è molto meno, invece, l’intenzione di licenziare il capo di stato maggiore dell’IDF Herzi Halevi e quello dello Shin Bet Ronen Bar. Il primo, tra l’altro, viene da una famiglia conservatrice e religiosa; è il primo capo militare che ha questa provenienza.
La minoranza invita a protestare contro l’allontanamento di Gallant. Lapid, il capo del maggiore partito di opposizione, dice che licenziarlo in tempo di guerra è una follia. Da dove nasce l’incompatibilità con Netanyahu?
La sostituzione di Gallant con il ministro degli Esteri Israel Katz era data per imminente negli ultimi giorni. L’ormai ex titolare della Difesa era in bilico da tempo. Bastava guardare le foto di Gallant e Netanyahu insieme, seduti l’uno accanto all’altro, per rendersi conto che fra i due non correva buon sangue. Gallant non vuole un controllo diretto di Israele sulla Striscia di Gaza; nei mesi scorsi, una sua visita negli Stati Uniti per parlare dei piani militari era stata stoppata dallo stesso Netanyahu, che aveva cancellato il viaggio. I contrasti tra di loro non si contano; dire perché questo avvicendamento è avvenuto oggi è un’altra cosa. Certo, fatto in questo momento contrasta con gli allarmi per imminenti attacchi da parte dell’Iran: in una situazione del genere non si cambia il ministro della Difesa, per non parlare degli eventuali cambiamenti al vertice dell’IDF.
Il ministro e rappresentante dell’ultradestra Ben Gvir ha dichiarato che Gallant era di “ostacolo alla vittoria assoluta”. La sua uscita di scena significa una ulteriore radicalizzazione delle posizioni governative?
È così. Non so se intorno a Gallant ci sia uno schieramento più ampio in grado di far cadere il governo: ogni volta che Netanyahu è stato mollato da qualcuno, però, è andato avanti per la sua strada come se nulla fosse. Anzi, contemporaneamente riceveva sempre più consensi da parte dei nazionalisti e dei coloni. In questi giorni, una organizzazione palestinese ha contato 1.490 attacchi di cui i coloni si sono resi responsabili nel solo mese di ottobre.
L’offensiva di Israele, d’altra parte, procede secondo i piani. Giusto?
Ha portato avanti la sua offensiva a Gaza come in Libano, senza concedere niente né alle richieste dell’inviato della Casa Bianca Amos Hochstein né a quelle del segretario di Stato Anthony Blinken: non ha messo in cantiere nessuna de-escalation per favorire Kamala Harris e permetterle di avere qualche carta da giocare nei confronti della comunità arabo-americana; anzi, ha intensificato le operazioni militari.
L’agenzia ufficiale del governo libanese ha annunciato che sono state distrutte ben 37 cittadine che si trovano nel sud del Libano. L’IDF vuole fare tabula rasa come a Gaza?
Ci sono filmati impressionanti girati da un drone che mostrano la contemporanea esplosione di 20-25 mine per distruggere le case di Mays el Jabal, una località al confine con Israele. Presumo che abbiano fatto la stessa cosa altrove: a Blida, un altro centro sempre del sud, hanno raso al suolo non solo le abitazioni ma anche i cimiteri. Oltre che con i vivi, ce l’hanno anche con i morti? È successa la stessa cosa in un Paese cristiano che si chiama Rayak e che si trova nella valle della Bekaa. Non riesco a trovare le giustificazioni.
Qual è l’obiettivo?
L’obiettivo è fare terra bruciata. Anche nella guerra del 2006 le distruzioni sono state enormi; sono state colpite molte infrastrutture, ma allora la popolazione è riuscita a tornare nelle sue case e a ricostruire in pochissimo tempo. Il problema adesso è che non c’è più niente. Prima si poteva piazzare una tenda in giardino in attesa di concludere i lavori, ma se tutto è distrutto, comprese le infrastrutture, gli impianti dell’acqua, la scuola, il dispensario, cosa si può fare? Sembra proprio che vogliano creare zone completamente vuote per impedire alla gente di farci ritorno.
Ma i libanesi danno la colpa anche a Hezbollah?
Ho interpellato alcune persone per capire quale consenso ha Hezbollah dopo tutto questo. È calato, ma così gli israeliani sparano a zero contro tutti coloro che abitano in una località; non è più una guerra contro Hezbollah. Se volevano che la gente, gli stessi sciiti, si ribellasse contro il gruppo filoiraniano perché ha portato il Paese alla rovina, in realtà hanno ottenuto l’effetto contrario: se la prendono con tutti, fanno di ogni erba un fascio. C’è gente che dall’Italia ha dovuto mandare soldi per fare in modo che chi è restato potesse affittare casa o per aiutare altri ad andarsene in Giordania. La colpa di questa rovina ricade sugli israeliani; il loro intento di aizzare a una ribellione contro Hezbollah sta fallendo.
Resta ancora alta la tensione per un eventuale attacco iraniano. Se Teheran dovesse attaccare, magari anche in queste ore, perché lo farebbe?
Non ho ancora capito se agli iraniani convenga la vittoria di Harris o di Trump, anche se quest’ultimo, alla sua maniera, dice di voler chiudere tutte le guerre, in Ucraina o in Medio Oriente che sia. Netanyahu, però, è molto amico di Trump e vorrebbe lui: se così è per gli iraniani, potrebbe essere più conveniente che sia Kamala Harris la nuova presidente. Anche perché qualcuno dice che Biden, dopo il martedì elettorale, avrà più libertà di azione nei confronti di Israele, e che nei due mesi che lo separano dal cambio della guardia ufficiale con il nuovo inquilino della Casa Bianca farà pressione su di loro. C’è comunque un tam-tam sull’attacco iraniano che fa temere davvero il peggio, a meno che vogliano attendere l’esito ufficiale delle elezioni rimandando l’operazione militare. Finora, d’altra parte, hanno dato l’impressione di voler attendere il nuovo presidente prima di tentare un nuovo accordo.
(Paolo Rossetti)
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