Dalla musica da tavola (anche “tafelmusik”, ovvero quella che veniva suonata durante i banchetti nel XVI secolo) a Spotify: è questa la nuova frontiera della cosiddetta neurogastronomia, quella branca delle neuroscienze che studia il modo in cui il nostro cervello si comporta ed esperisce nel proprio rapporto col cibo. È notizia degli ultimi tempi infatti che la nota piattaforma di streaming musicale si sta orientando fortemente verso i grandi marchi internazionali del food tanto che stanno nascendo delle vere e proprie “sponsored playlist” create apposta per essere associate a un determinato prodotto e all’esperienza sensoriale che suscita, in modo che gli stessi brani diventino un modo alternativo di ‘raccontarlo’ e dare vita a delle sorta di identità audio per un determinato tipo di cibo. Ma come si inserisce tutto questo nell’ambito della neurogastronomia e quali potrebbero essere le implicazioni? Proviamo a fare un passo indietro, utilizzando propri il caso di Spotify per chiarire meglio i contorni (e le potenzialità) dell’ambito di cui stiamo parlando.



NEUROGASTRONOMIA E MUSICA: TRA CIBO ED ESPERIENZE SENSORIALI

È assodato che anche tra musica e cibo esista un forte legame e in tal senso la stessa neurogastronomia (inaugurata da Gordon M. Shepherd, professore di Neurobiologia presso la Yale Medical School) prova a spiegarci come si comporta il nostro cervello durante un’esperienza gastronomica, creando la propria percezione del gusto, e come mai determinati suoni possono influenzare questa stessa esperienza mentre mangiamo. Un esempio di questi meccanismi è dato ad esempio da un ristorante di cucina molecolare che presenta uno dei suoi piatti, “Sound of the Sea”, con un iPod nascosto in una conchiglia e gli auricolari che riproducono suoni di un ambiente marino per un’esperienza sensoriale davvero unica. Questo perché secondo gli scienziati quello che ascoltiamo ha un’influenza diretta sulla percezione di quello che viviamo e quindi, in seconda battuta, pure di quello che gustiamo. Infatti non è in realtà solo il cibo che ci ammalia con un gusto ma il modo in cui il nostro cervello interpreta gli stimoli che arrivano a esso e qui i suoni possono giocare un ruolo importante: ecco perché la neurogastronomia può essere d’aiuto per le grandi aziende alimentari (ma anche le catene di ristorazione) dato che, attraverso un uso preciso della musica, si può far percepire in maniera più intensa la qualità e le proprietà di un prodotto…



NEUROSCIENZE… A TAVOLA: LE FRONTIERE DI QUESTA DISCIPLINA

In precedenza abbiamo parlato della “tafelmusik” ma anche andando molto più indietro nel tempo si trovano antecedenti illustri in tema di neurogastronomia e musica: basta pensare a quanto accadeva nella cultura egizia o presso la Roma imperiale, con strumenti, canti e danze che rendevano più piacevole la permanenza dei commensali a tavola sia mentre mangiano sia nelle pause tra una portata e l’altra. Un ricorso ante litteram a quelle pratiche che oggi le neuroscienze tentano di spiegare meglio e che, come detto, i più importanti brand nel mondo del food e della ristorazione vogliono provare a sfruttare: se l’obbiettivo della neurogastronomia è spiegare come il cervello “crea” i sapori che si sperimentano, ecco che la nuova frontiera sarà quella non solo di ‘potenziare’ il gusto di un piatto o di un prodotto ma attraverso la musica fare sì che possa venire percepito anche in maniera totalmente diversa o sorprendente creando proprio un’atmosfera ideale e un’esperienza sensoriale a tutto tondo. Insomma, bocca e olfatto non sono gli unici a determinare il sapore di un cibo: è per questo che attraverso strumenti quali elettroencefalogramma ed eye-tracking è possibile capire come funziona il cervello e ‘massimizzzare’ un’esperienza enogastronomica, ricordando che è importante tenere conto di tutti i fattori che agiscono dall’esterno (che si tratti della musica o del contesto ambientale).

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