Aberdeen, stato di Washington, estremo ovest degli Stati Uniti, poco sotto al confine con il Canada, dove piove sempre. E’ ovvio che la gente di qua sia quasi tutta depressa. Uno sputo di paesino di poco più di 16mila anime, dove ti immagini di incontrare da un momento all’altro La Signora Ceppo, circondato da foreste fitte fitte, dove si aggira probabilmente lo spirito dannato di Killer BOB e nel cui fiume Wishkah potresti imbatterti nel cadavere di Laura Palmer.



Twin Peaks venne girato quasi contemporaneamente alla nascita e all’ascesa dei Nirvana, trasmesso alla televisione americana dall’aprile 1990 al giugno 1991 e venne ambientato nello stesso stato di Washington. Nevermind, il disco più famoso della band, sarebbe uscito il 24 settembre di quell’anno. Tutto, nell’immaginario, congiura a mettere insieme Aberdeen e l’inesistente Twin Peaks.



Ad Aberdeen invece nacque Kurt Cobain, cresciuto a East First Street, in una abitazione di quattro locali. La camera da letto, in mansarda, del futuro cantante rock ha ancora quel buco che Cobain, in preda a una crisi di rabbia, fece nel muro. Sugli altri muri i nomi delle band che il ragazzino amava e disegni di personaggi della Disney. Fino a pochi anni fa ci viveva ancora la madre, che, nonostante l’avesse messa in vendita sperando di tirarci su un bel gruzzoletto come succede a tutte le case dove sono nate e cresciute le rock star, era ancora invenduta. Nessuno la compra. Chi vive da quelle parti dice che nessuno lo farà, perché è lì che Kurt ha conosciuto il dolore. C’è anche chi pensa che la casa sia abitata da spiriti cattivi.



Quando aveva otto anni i genitori, Donald e Wendy Cobain, divorziarono. Fu un evento che lo traumatizzò per il resto della vita. La madre notò subito un profondo cambiamento nel bambino, che divenne di colpo introverso e infelice, tanto che le mura del bagno di casa sua riportavano i segni del suo disagio: “Odio mia madre, odio mio padre, mio padre odia mia madre, mia madre odia mio padre, è semplice: vogliono che io sia triste”. In un’intervista del 1993 Cobain disse:

“Per qualche ragione me ne vergognavo. Mi vergognavo dei miei genitori. Non riuscivo più a guardare in faccia alcuni dei miei compagni di scuola perché desideravo disperatamente avere una famiglia normale. Mamma, papà. Volevo quel tipo di sicurezza e lo rinfacciai ai miei genitori per parecchi anni”.

Questo dolore è sparso ampiamente nei solchi di Nevermind.

Da Aberdeen a Olympia fino a Seattle. Fu il percorso che mise insieme i Nirvana, uno dei tanti gruppi hardcore della regione, influenzati tanto dal punk che dall’hard rock degli anni 80. Dopo l’esordio per una piccola etichetta indipendente, la Sub Pop Records nel 1989, gli astuti dirigenti della major Geffen capiscono le potenzialità del gruppo. Tradendo, per molti, gli ideali punk, i Nirvana firmano e realizzano il disco della loro vita. La casa discografica si aspettava di vendere al massimo 250mila copie, ne venderanno milioni scalzando Michael Jackson dal primo posto della classifica americana. Cobain e soci avevano saputo intercettare lo spirito dei loro coetanei, quella Generazione X fatta di sbandati, figli degli ex hippie degli anni 60 che avevano lasciato loro solo ceneri e disillusioni. Anche se si sarebbero lamentati del suono troppo pulito, Nevermind è un disco di potente rock, caratterizzato dalla chitarra distorta e urlante del cantante. La rivista Guitar World scrisse: “Il suono della chitarra di Kurt Cobain in Nevermind dei Nirvana stabilisce il tono di tutta la musica rock degli anni novanta”. E così fu. Distorsioni, pedale degli effetti, numerosissime sovra incisioni: Cobain lavorò in modo instancabile al disco. Pochi, allora, si accorsero che in fondo aveva messo insieme musica pop e punk, come lui stesso avrebbe ammesso, ispirandosi a gruppi come i Pixies (“Stavo provando a scrivere la perfetta canzone pop. Fondamentalmente stavo copiando i Pixies” dirà) che già lo facevano da tempo. Le canzoni univano orecchiabili melodie pop dal sapore addirittura beatlesiano con riff di chitarra dissonanti e ritmi martellanti. In mente aveva i Knack (!), i Bay City Rollers, Black Flag e Black Sabbath. Il riff iniziale di Smells like teen spirit, poi, è preso da quello del grande successo dei Boston, l’innocua More than a feeling.

Ogni brano era caratterizzato da  forti alternanze dinamiche, con passaggi quieti e ritornelli urlati e chitarra devastante. Tutto insieme, Nevermind, soprattutto grazie alla disperante, intensa e feroce carica vocale di Kurt Cobain suonava come un disco che incuteva paura e allo stesso tempo liberava la rabbia soffocata di una intera generazione.

C’era, in Territorial Pissing, il brano più classicamente punk del disco, la divertente ironia nei confronti dei genitori, quegli hippie pace & amore che si erano dimostrati peggiori dei loro genitori. All’inizio infatti si ascoltano i versi, cantati in modo stonato e ubriaco, di uno dei tanti inni degli anni 60, la celeberrima Get Together (“Come on people now Smile on your brother

Everybody get together And try to love one another right now”). Quei versi di pace, amore, fratellanza, sorrisi da scambiarsi uni con gli altri vengono irrisi per poi essere sommersi dal muro devastante della chitarra elettrica. Ma ancora di più la canzone conteneva un verso illuminante: “Just because you’re paranoid doesn’t mean they’re not after you” (Solo perché sei paranoico non vuol dire che qualcuno non ti stia seguendo davvero”).

C’è poi il grido disperato di Come as you are, nel cui testo Cobain sembra profetizzare il suo prossimo suicidio (“E giuro che non ho una pistola no non ho una pistola”) mentre chiede che un Altro si faccia presente nella sua disperata solitudine. E naturalmente c’è l’anti inno generazionale Smells like teen spirit.

Già il video del brano è eccezionale. Il gruppo suona in una palestra di un qualche college mentre cheerleader, simbolo dell’America più maschilista e della donna-oggetto, ballano intorno a loro, e mentre studenti seguono dalle gradinate. Mentre la musica si fa sempre più violenta, la rabbia comunicata dalla band arriva ai ragazzi e tutto si trasforma in una distruzione di massa, al ritmo del pogare mentre Cobain e compagni distruggono i loro strumenti. L’immagine perfetta della desolazione e della rabbia furiosa della Generazione X. Ma tutto nella canzone è puro genio: la linea melodica che ti si appiccica dentro, l’esplosione del ritornello, le parole.”Here we are now, entertain us I feel stupid and contagious Here we are now, entertain us A mulatto, an albino, a mosquito, my libido A denial, a denial, a denial, a denial, a denial”, “siamo qua, facci divertire, mi sento stupido e contagioso, eccoci ora, facci divertire, un mulatto, un albino, una zanzara, la mia libido un rifiuto, un rifiuto, un rifiuto, un rifiuto, un rifiuto”. Se Kurt Cobain è stato la voce della sua generazione come dissero in molti, cosa che lui sempre rifiutò con disgusto, queste parole sono il manifesto della Generazione X: rifiuto di una vita che ci rende stupidi. Kurt Cobain prese ispirazione per il titolo durante una notte dedicata all’alcol e al vandalismo in compagnia della sua amica, nonché cantante principale del gruppo riot grrrl Bikini KillKathleen Hanna che tracciò sul muro della casa di Cobain con la vernice spray la scritta “Kurt smells like teen spirit” (“Kurt profuma di Teen Spirit”) con l’intento di ridicolizzarlo. La frase si riferiva a un deodorante per adolescenti molto in voga all’epoca, il “Teen Spirit”, che anche l’ex ragazza di Cobain, nonché membro dello stesso gruppo di Hanna, Tobi Vail utilizzava. Kurt, che ignorava l’esistenza del deodorante finché il singolo non raggiunse il successo, lo lesse invece come un apprezzamento riferito alla discussione a proposito di anarchia e punk rock che avevano avuto quella sera, concludendo che profumasse ancora di uno “spirito adolescenziale” e “rivoluzionario. Qualunque fosse l’origine del titolo, era quanto di più appropriato per una generazione di ragazzi gentili e adolescenziali devastati dal vuoto di valori dei loro genitori.

Con Polly, Kurt Cobain dimostra di essere un attento osservatore della realtà e delle piaghe che il mondo moderno è capace di procurare. Scritta dal punto di vista di uno stupratore, prende spunto dalla storia vera di una ragazzina di 14 anni che dopo un concerto punk viene rapita da un pedofilo recidivo, tale Gerard Arthur Friend che la torturò e stuprò per due giorni fino a quando la ragazza riuscì a fuggire. Non solo: Polly è uno dei due soli brani acustici della raccolta, in cui Cobain svela la sua immensa capacità autoriale, solo apparentemente nascosta dai muri di chitarre elettriche. Se non fosse morto, chissà, avrebbe potuto tranquillamente intraprendere una carriera da classico songwriter di altissimo livello (tale capacità la si vedrà nel bellissimo Unplugged pubblicato postumo).

Nella musicalmente complessa Breed, Cobain esplicita con frammenti di memoria il suo rifiuto della classe media americana e delle figure genitoriali, allo stesso tempo sottolineando senso di paura e di angoscia. Giocando come solo lui sapeva fare con l’ambiguità, utilizza “lithium”, un farmaco per i disturbi bipolari, il litio, stabilizzatore dell’umore tanto da aver fatto pensare che ne avesse fatto uso, quando invece la canzone sottintende la fede, la religione, come ultima speranza quando la sofferenza si fa insopportabile, nel caso specifico la morte della fidanzata del protagonista del brano.

Il disco si conclude con Something in the way, altra ballata acustica con accompagnamento di violoncello, che rimanda alle tinte fosche e nebbiose di un altro immenso cantautore troppo fragile per sopravvivere, Nick Drake, un riferimento esplicito al rapporto di Kurt con i suoi genitori: “essere di intralcio, stare sulle scatole”. Così si sentiva il piccolo Cobain davanti a loro, un intralcio.

In realtà dopo circa dieci minuti dal termine del brano iniziava un’altra canzone, Endless, Nameless, finita lì per sbaglio cosa che inaugurò per anni la moda in tutti i dischi di includere un brano senza citarlo dopo parecchi minuti dalla fine apparente del disco. Sono diversi minuti di devastanti feedback distruttivi di chitarra che neanche Neil Young.

Nevermind, nonostante la produzione troppo patinata, suona ancora oggi come una scarica potentissima di ottimo rock, probabilmente l’ultimo grande disco di questo genere musicale e mette in mostra anche l’ultimo grande autore di canzoni di questa storia. Una storia che gronda sangue, dolore, disperazione, un urlo, una richiesta di aiuto rimasta inascoltata: “Vieni come sei, come eri, come vuoi essere, come un amico, come un amico”.