Tra i tanti scritti di John Henry Newman, che è stato teologo, filosofo e poeta – e che è anche (e soprattutto) santo, canonizzato da papa Francesco proprio oggi, in questa domenica del Sinodo speciale per l’Amazzonia – compaiono anche due romanzi.

Il primo, Perdita e guadagno (Loss and gain), del 1848, ripropone in maniera appena velata i motivi e le vicissitudini della conversione di Newman stesso. Il libro, dopo una prima traduzione del 1857, è stato ripreso in Italia da Jaca Book solo nel 1996, che ne ha fatto uscire una nuova tiratura nel 2017. Il secondo, Callista, è del 1855 e i suoi riscontri editoriali sono praticamente inversi: dopo due diverse edizioni in contemporanea già nel 1856 (C. Turati e Fratelli Centenari) e, a seguire, altre tre con altrettante case editrici nel 1858 e 1859, a proporne la lettura sono rimaste solamente le Paoline e solo con pubblicazioni sporadiche, di cui l’ultima agli inizi degli anni 80.



Probabilmente in Perdita e guadagno la complessità e l’articolazione del pensiero che vengono esposte nelle conversazioni e nelle tormentate riflessioni del protagonista conferiscono all’opera un sapore di modernità che ne rende interessante la riproposizione ancora oggi; Callista, invece, con la sua trama lineare e prevedibile, i personaggi dalla psicologia un po’ troppo “trasparente”, patisce la vicinanza a un modello agiografico ormai improponibile al lettore moderno.



Ma Newman è scrittore fine e profondo e val la pena provare a seguirlo. E se Callista, come ammette il titolo originale, non è che uno Schizzo sulla Chiesa d’Africa nel terzo secolo, non manca di motivi di interesse che, insieme, ne ristabiliscano l’attualità.

Come Loss and gain, il romanzo racconta la storia di una conversione, quella della giovane greca Callista, scultrice sensibile e raffinata di statuette pagane per il culto familiare, e del suo martirio nella piccola cittadina africana di Sicca. E come la familiarità con Oxford aveva fornito all’autore la necessaria ambientazione per il suo esordio letterario, è la sua straordinaria conoscenza del mondo antico a sostenerlo in questo secondo romanzo. Grazie infatti ad essa, Newman cerca una sorta di “effetto realismo” con lunghe elencazioni e descrizioni dettagliatissime: gli ambienti e le abitudini del tempo, le diverse divinità, le pratiche religiose pagane e i giochi secolari, le funzioni cristiane, le consuetudini conviviali e i cibi ricercati; fino ai diversi tipi di unione matrimoniale previsti dalla legge, la struttura del potere romano e il suo terribile sistema carcerario: ognuna a comporre visivamente un contesto nel quale possa essere più facile l’immedesimazione personale.



Oltre a ciò, e certo con il medesimo scopo, Newman pone più volte la propria presenza esplicita di narratore lungo il racconto, sia a indicare un paragone diretto tra l’ambiente in cui si svolge la storia e l’Inghilterra del proprio tempo sia a sancire, con la distanza storica, la veridicità di quanto affermato dai suoi protagonisti: una sanzione di autenticità stabilita non tanto dal successo temporale del cristianesimo, ma più dalla persistenza di quel desiderio di verità che esso risveglia e accoglie fin dalla sua origine; desiderio invece deriso e giudicato inutile dagli imperi di tutti i tempi: politici, economici o sociali che siano, compreso il positivismo dominante ai tempi di Newman.

“Che cosa è questa verità? Cosa intendi, dove hai imparato questo gergo? Con che orientale fandonia ti hanno canzonato? (…) Può la verità mescermi una coppa di meliloto? può la verità coronarmi di fiori? può essa rallegrarmi col canto? può condurre a me Glicera? introdurre dell’oro nella mia cintura? o rinfrescarmi la fronte quando mi vien la febbre? Può la verità darmi una bella villa suburbana con cinquecento schiavi all’incirca, o innalzarmi al duumvirato? Faccia questo, e io l’adorerò.”

E proprio il desiderio di verità – o, come dice Ratzinger, la via della coscienza, cioè la capacità di riconoscere la verità nelle decisioni della vita e, insieme, l’obbedienza ad essa – ci porta al punto del romanzo nel quale Callista, in un dialogo con il filosofo Polemone, racconta cosa le stia accadendo.

“Ebbene, io sento questo Dio dentro il mio cuore; io mi sento alla sua presenza; Egli mi dice: Fa questa cosa; non fare quest’altra. Voi potreste dirmi esser questo dettame una pura legge della mia natura, come il godere o il soffrire; ma io non posso intenderla così. No, questo è l’eco d’una persona che mi parla; nulla mi potrà persuadere che questo non proceda assolutamente da una persona al di fuori di me; egli porta con sé la prova della divina sua origine; la mia natura si sente inclinata a lui come ad una persona: quand’io gli obbedisco, sento una soddisfazione; se gli disobbedisco, un rammarico; appunto come quel che provo nel compiacere o nell’offendere qualche venerato amico. Perciò vedete, o Polemone, ch’io credo in un Essere, il quale è ben più assai che un certo che di vago, una qualche cosa, come voi dite. Io credo in un Essere ch’è più reale per me di quello che siano il sole, la luce, le stelle e l’amena terra e la voce degli amici. Voi direte: Chi è quest’Ente? V’ha egli detto alcun che di sé stesso? Ahimè! no!…. questo è quello che mi dà più pena! ma io non voglio abbandonare quel che ho, per la ragione che non ne ho di più: l’eco suppone una voce, e la voce un che parla: questo Essere che parla, io l’amo e lo temo.”

In questo modo Newman sottrae la coscienza all’indeterminatezza di un sentimento di fondo che nasce spontaneo dentro di sé e la nomina voce di Qualcuno che ci interpella, che ci attrae, ci conquista, che vorremmo conoscere e incontrare; una voce che ci è più intima di quanto noi lo siamo a noi stessi.

Ma se questa era (già) la novità del pensiero di Newman in un mondo, il suo, che era (già) il luogo del silenzio di Dio, oggi, in un mondo che sembra sempre più il luogo del “silenzio dell’uomo”, la sua attualità è ancora più singolare.

Questa sua concezione ci invita infatti a “ritrovare” la parte più dimenticata di noi stessi e che il mondo vorrebbe mettere a tacere, quel senso di inquietudine, di angoscia, o anche solo di attesa, per una risposta che non siamo in grado di darci da soli, e per questo tanto ci spaventa; ci spinge a riprendere la nostra umanità fragile e incapace, che sa solo domandare, che insiste e non si riesce a placarla; ci invita ad accogliere la nostra ansia come una compagna di viaggio o una specie di nervo scoperto, una ferita, un pertugio da cui ci possa raggiungere questa voce da fuori.

Proprio qui sta la finezza (anche narrativa) del romanzo di Newman. Callista si farà cristiana, ma prima – e improvvisamente – diventa inquieta, angosciata, travolta da quella voce che l’ha sorpresa e che pretende la sua lealtà. Tanto è vero che, in modo inatteso per il fratello e gli amici che vorrebbero aiutarla a uscire dal carcere, rifiuta di adorare gli idoli romani anche senza essere cristiana, solo per il fatto che questa adorazione è per lei ormai insensata, inutile, ché quelle statue non sono in grado di parlarle, di rispondere alle sue domande.

“La sua istintiva nozione religiosa era quella di un’anima che rispondesse a un Dio, il quale aveva badato a quell’anima. O era una corrispondenza d’amore, o era un nome vano.” E Callista vuole ubbidire a quella voce che la interroga proprio per darle un volto, per poterla chiamare per nome; si fida di essa, anche se non si è ancora svelata, perché quella voce le ha già portato “in dono” l’apprezzamento di sé, il valore della propria umanità come non l’aveva mai provata; un valore più grande di qualunque sofferenza avesse dovuto patire e più della vita stessa.

Diventerà cristiana solo quando questa voce le verrà incontro e si svelerà in alcuni personaggi del romanzo; incontri con persone completamente diverse tra loro che così si confermano l’un l’altro, confermando altresì l’origine divina di quella attrattiva.

La prima volta era accaduto con la propria serva, che era cristiana e “non si rassomigliava a nessuna di quelle ch’io abbia vedute prima o poi”, ma che era morta prima che Callista potesse capire cosa la rendesse speciale. Poi era capitato di nuovo con quel “povero” cristiano di Agellio, che di lei era timidamente e goffamente innamorato e, infine, con il vescovo Cipriano, futuro santo e martire, uno dei personaggi storici del romanzo, che l’accompagnerà con la genialità umana propria dei santi.

“E quanto più ella ripensava a Chione, ad Agellio, a Cecilio, tanto più distingueva con chiarezza che quella dottrina operava in loro qualche cosa che ella non aveva. Essi aveano in sé una semplicità, una veracità, una fermezza, una sublimità, una calma e una santità che a lei era straniera, che pure parlava al suo cuore, e assolutamente la soggiogava”.

Callista aveva infine dato un nome a quella dottrina e a quella voce cui si era già affidata, per la quale aveva deciso di rischiare, di non avere paura delle conseguenze, per vedere se davvero qualcuno sarebbe venuto a salvarla; e anche a costo di morire, perché, come le aveva detto Cipriano, voi “avete un grave peso sul cuore (…) che non sapete nemmeno cosa sia (…) e quand’anche viveste fino a diventare vecchia, non sapreste come fare a sopportare la vita”.

In un mondo, quello di oggi, ormai senza sogni e annichilito dai propri timori, nel quale il desiderio stesso fa paura e sembra che questa ferita non si possa nemmeno nominare, pena la perdita del fragile equilibrio raggiunto o che si spera di poter raggiungere; un mondo, come dice papa Francesco, il cui dramma “non è solamente l’assenza di Dio, ma anche, e soprattutto, l’assenza dell’uomo, la perdita della sua fisionomia, del suo destino, della sua identità, una certa incapacità nello spiegare le esigenze fondamentali che si annidano nel suo cuore”, proprio il grido del cuore e la lealtà con se stessi, che segna più di ogni altra cosa questo romanzo di Newman, si rivelano di una attualità sorprendente.

Non abbiate paura. In fondo è questo il suo invito – e la promessa – che ancora oggi può cambiare il mondo come cambiò il mondo romano.