Nel 1875, John Henry Newman pubblicava la sua Lettera al duca di Norfolk per rispondere alle accuse anti-cattoliche del primo ministro inglese uscente William Gladstone: secondo quest’ultimo, papa Pio IX, nell’enciclica Quanta cura del 1864, aveva negato la libertà di coscienza sostenendo che il cattolicesimo era l’unica religione vera.



La realtà delle cose risultava, per Newman, più complessa, in quanto, a suo giudizio, la tradizione inglese non differiva molto da quella romana, condividendo con quest’ultima il principio del toryism (vale a dire della lealtà verso le persone): “Tutto ciò che so è che il torismo, cioè la lealtà verso le persone, scaturisce immortale dal cuore umano; che la religione è una forma di lealtà spirituale e che il cattolicesimo è l’unica forma divina di religione”.



Oggi papa Francesco canonizzerà Newman a Roma in Piazza San Pietro nel corso del Sinodo per l’Amazzonia, a nove anni dalla messa di beatificazione celebrata da papa Benedetto XVI il 19 settembre 2010 in Inghilterra, al Cofton Park di Birmingham, non lontano dal cimitero di Rednal, il luogo della sua sepoltura.

Il legame che oggi unisce il nostro mondo al nuovo mondo passa dunque attraverso il tempo di Newman, sacerdote cattolico convertito dall’anglicanesimo nel 1845, nonché uno degli intellettuali più in vista d’Inghilterra. E quindi attraverso il momento in cui egli cercò di combattere una delle ultime battaglie culturali per la salvezza del cattolicesimo: innanzitutto rispondendo alla domanda riguardante il suo futuro. E le forme del suo futuro: l’intellettuale e professore di Oxford (ma londinese di nascita) aveva saputo guardare oltre il proprio tempo. Con uno spirito che risulta più moderno del nostro, si era messo alla sequela di coloro i quali intuiva fossero stati (o erano) capaci di precorrere i tempi, capendone i segni: innanzitutto il roveretano suo contemporaneo Antonio Rosmini e il cosiddetto “cattolicesimo moderno”, quello cioè sviluppatosi, nel corso dell’Età moderna, in risposta alla Riforma protestante (sant’Ignazio di Loyola e sant’Alfonso Maria de’ Liguori).

Newman guardava dunque a santi e intellettuali italiani (o comunque dell’Europa cattolica del sud) come alle fonti di una novità che avrebbe potuto cambiare l’Inghilterra. La sua missione intellettuale e spirituale era infatti iniziata negli anni Trenta dell’Ottocento tra le fila (e come leader) del Movimento di Oxford per la difesa dell’anglicanesimo dalle leggi del governo liberale di allora; ma era continuata nella forma di una battaglia che si poteva combattere solo sul crinale dell’Età moderna: in quanto, determinando la conversione personale al cattolicesimo, metteva radicalmente in discussione la tradizione anglicana nel tentativo di riportare le lancette della storia dell’Inghilterra a prima dell’Età elisabettiana. 

Quando, nel 1848, diede alle stampe il primo romanzo cattolico in lingua inglese, Newman volle chiamarlo Perdita e guadagno (Loss and Gain) per sottolineare che la posta in gioco, nel proprio passaggio alla Chiesa cattolica, era l’aver percepito che l’ortodossia risiedeva a Roma (e non a Canterbury). E che solo nella Chiesa cattolica esisteva la pienezza di quelle dimensioni dell’umano, già in parte presenti in una ragione naturale non chiusa pregiudizialmente all’azione della grazia.

I lavori successivi, dall’Idea di Università (1852) alla Grammatica dell’assenso (1870), sarebbero stati destinati a restare celebri non solo nella teologia, ma anche come antesignani della domanda novecentesca sulle possibilità di una filosofia cristiana.