Ci sono giornate nelle quali possiamo essere grati più di altre, e sono quelle in cui nascono artisti e artiste che con la loro opera ci permettono di comprendere un po’ meglio non solo i contesti storici, gli anni che stiamo vivendo, ma anche qualcosa di noi stessi; ci emozionano, toccano, lacerano, e rappresentano – in alcuni casi straordinari – un assoluto di bellezza.



Tra queste giornate, nel mio personale calendario delle celebrazioni pagane, dopo la nascita di Leonard Cohen il 21 settembre c’è il 22, il giorno in cui è nato Nick Cave, che a ben vedere può essere considerato proprio un erede artistico del grande cantautore canadese.

Nicolas Edward Cave fa il suo esordio nel mondo della musica con il coro della cattedrale della città australiana di Wangaratta. Durante l’adolescenza studia in una scuola a Melbourne, dove incontra Mick Harvey, con il quale fonda i Concrete Volture, che diventano successivamente i Boys Next Door, fino a trasformarsi nei The Birthday Party, con i quali poco più che maggiorenne raggiunge Londra. Qui si fanno conoscere per la loro esuberanza e per il loro carisma definito da molti animalesco.



Complici anche i condizionamenti legati all’uso dell’eroina, in questo periodo Cave inizia a costruire la sua poetica fatta di corpi, flagellamento, carnalità, che in una fase successiva – di maggiore attenzione e consapevolezza spirituale – rappresenterà come lo scontro simbolico tra bene e male. Negli anni Ottanta la band si trasferirà a Berlino, per poi sciogliersi nel 1983, anno in cui il cantautore australiano fonda Nick Cave and The Bad Seeds, che resterà il punto di riferimento della sua produzione futura.

Cave è un artista complesso, non solo autore e compositore, ma anche scrittore, attore, sceneggiatore, appassionato di pittura. Tutti questi richiami entrano nella sua opera musicale, piena di immagini epiche e anche di ispirazioni pittoriche, tra cui spicca l’espressionismo tedesco. Da sempre tormentato, originale, fuori dagli schemi, la sua forza sembra coincidere con un punto di rottura, che cerca nella provocazione, nel ribaltamento di senso, nell’analisi introspettiva di ogni cosa che attraversa artisticamente, fino a raggiungere un livello di consapevolezza e profondità tale da trasformare i suoi progetti in vere e proprie opere mistiche, dal forte impatto emotivo.



Una parte della sua scrittura affonda nel mistero della fede, della creazione, del vivere, e non a caso uno dei suoi testi di riferimento è la Bibbia. Impossibile quando si parla di lui scindere la luce dall’oscurità, il dolore dal piacere, l’ascesa dalla caduta.

Tutto in Nick Cave procede per contrasti, proprio come nelle grandi narrazioni, dove l’eterno conflitto tra bene-male, Eros e Thanatos, è quello che più di ogni altro impegna l’uomo e indirizza la sua ricerca. Questo conflitto vale tanto per il Nick Cave che scrive e canta canzoni d’amore, quanto per quello che parla di morte, due temi sempre presenti nella sua produzione.

Uno dei grandi meriti di Cave è rendere la musica un rituale intriso di sacralità, aspetto che trasuda nelle performance, in cui appare come un moderno predicatore che incontra il pubblico, a contatto col quale si compie la cerimonia di condivisione del dolore, del piacere, della consacrazione dell’artista che si immola ai suoi fedeli. Nick Cave porta con sé il fascino della teatralità, frutto delle sue catarsi spirituali, scandite dalla metafora biblica che accompagna gran parte della sua visione, spesso apocalittica.

Andando oltre il coinvolgimento religioso, Cave mantiene per la figura di Cristo un’attrazione antropologica. Cristo viene visto come il tentativo di umanizzare il dramma cosmico. Vede in lui l’uomo offeso, incompreso, oltraggiato, che tuttavia non arresta il suo viaggio eroico e si immola per un bene supremo che ha il sapore della liberazione. Che sia dal peccato, dai propri demoni, dai mali ineluttabili del mondo poco importa.

Tutto il dramma nella dimensione artistica e umana di Cave passa per l’accettazione del dolore, che l’artista conosce bene, essendo lui stesso sopravvissuto alla morte del figlio. Il dolore che lo pervade trova nella metafora religiosa trasfigurata nella canzone una via di fuga.

Il tema della perdita diventa totalizzante per Nick Cave, e il dolore un atto di sottomissione e al contempo di resistenza, come racconta in una delle lettere sul suo sito The Red Hand Files. Il progetto, che proprio in questi giorni ha celebrato il terzo anno di vita, prende il nome dalla sua canzone Red Right Hand ed è lo strumento attraverso il quale si mantiene in contatto diretto con i fan, rispondendo alle loro domande. Come ha raccontato recentemente, alla base del sito c’è il desiderio di combinare il potere curativo del racconto e dell’ascolto. E definisce la pratica di leggere le domande che gli vengono rivolte come una forma di preghiera.

Del resto, il contatto è fondamentale per Cave, lo cerca nei live e lo porta avanti in modo epistolare con i suoi adepti e adepte. Lo scambio rafforza il suo potere taumaturgico, con le sue parole sempre ricercate, dense di significato, mai banali, offre analisi, rielaborazioni, immagini impossibili da dimenticare e come spesso scrive la sua audience: cura.

Cave porta dentro le composizioni la verità e l’intensità del suo vissuto attraverso un sentire profondo, consapevole, intensamente spirituale.

Riesce a essere sciamanico, sul palco e fuori da esso; scrive lettere che travalicano il qui e ora, in grado di spostare la storia, anche quella personale, portandola a un livello più ampio ed evocativo.

Vede l’essere umano e la sua stessa dimensione priva di certezze. In questa visione la preghiera è quanto di più puro si possa offrire al mondo e una volta presa coscienza della propria finitezza, la spiritualità diventa estensione dell’uomo. Cave intende la preghiera come un incontro con il proprio sé più profondo, un atto contemplativo verso ciò che amiamo, una conversazione con la propria interiorità. In questo senso Push the Sky Away, l’intenso disco scritto insieme al suo fidato amico, compositore, e musicista, Warren Ellis, è concepito come una lunga preghiera, che assume le sembianze di una religiosità molto personale.

Non solo nella musica, ma anche nei suoi film documentari – come One More Time With Feeling (regia di Andrew Dominik) che documenta le registrazioni di Skeleton Tree, affrontando le ripercussioni intime del dolore causato dalla tragica e prematura morte del figlio Arthur – Nick Cave ci racconta come la fede non sia fatta per cercare risposte, piuttosto per essere interrogata, per contenere la lacerazione, accompagnare l’uomo e rappresentare un punto fermo.

In Jesus Alone canta quanto credere in Dio non ci dispensi dal dolore. Questo credere ha piuttosto un senso che va oltre. «With my voice I am calling you» («Con la mia voce ti sto chiamando»), canta sempre Cave, e potrebbe chiamare il figlio o lo stesso Dio, a un certo punto forse le due figure coincidono e sono il giovane di Jesus Alone che si sveglia coperto di sangue, la donna vestita di giallo, lo sfarfallio nell’oscurità, o il vecchio seduto accanto al fuoco. Ma in fondo non importa che ci sia una risposta a questo richiamo, le parole si susseguono, evocano immagini surreali, e quello che conta è che anche nella sofferenza ci sia una strada percorribile verso la liberazione. L’artista offre il suo sguardo, ci racconta come per lui il dolore dimostra che non abbiamo alcun controllo sugli eventi, e la nostra stessa impotenza ha il potere di disvelarsi come libertà spirituale. Di questo e molto altro, nel giorno del suo compleanno, lo possiamo ringraziare.