E’ impossibile avvicinarsi al nuovo disco di Nick Cave, Ghosteen, senza aver letto le conversazioni che l’artista australiano tiene da mesi con i suoi fan tramite la newsletter “The Red Hand Files” in cui risponde personalmente a ogni genere di domanda. Qualcosa che nessun artista rock ha mai fatto prima, almeno con questa continuità, una volta alla settimana. In questo modo anomalo, sorpassando ogni regola del marketing promozionale, ha anche annunciato a un fan l’uscita del suo nuovo disco.
Certo, si può ascoltare anche senza averle lette, perché questo è il bello della musica rock: ognuno può avvicinarsi ad essa come vuole e di conseguenza interpretarla come vuole. Lo scrittore americano Peter Hamill, nelle note di copertina del disco di Bob Dylan Blood on the Tracks, scriveva che la musica rock “è la forma più democratica d’arte” perché non impone nulla all’ascoltatore, ma lo lascia totalmente libero di interpretarla. E i migliori artisti rock agiscono in questo modo, senza voler imporre niente a nessuno.
Ma certamente quanto scrive Cave nelle sue risposte è illuminante. Ad esempio per quanto riguarda il brano iniziale del disco, dove torna come già in passato nelle sue canzoni la figura di Elvis Presley. In una di queste lettere, Nick Cave ricorda quando andò, nel 1981, a vedere al cinema l’ultimo film concerto di Elvis, quello dove il re del rock’n’roll era già in modo evidente prossimo alla morte: grasso, disfatto, la mente persa e quasi incapace di connettere. “Mentre uscivo dal cinema, rimasi con queste tre immagini: il volto mortificato, striato di lacrime di Elvis; la sua testa che pendeva in triste accettazione; e le sue braccia con il cappuccio distese in trionfo. Queste sono le tappe del passaggio di Cristo sulla croce, l’angoscia, la sofferenza e la risurrezione, un viaggio che ci accoglie tutti, nel tempo. Elvis ha continuato a esibirsi fino alla fine. Ai miei occhi, era una specie di angelo; sia terribilmente umano ma divino nella sua forza che toccò così tanti cuori. Era fallibile e simile a Dio allo stesso tempo. Si è crocifisso sul palco a Las Vegas, centinaia e centinaia di volte. I suoi ultimi anni sulla terra sono stati tristi e soli come è possibile esserlo, ma le sue esibizioni a Las Vegas erano epici trionfi della trascendenza umana, in cui gli angeli guardavano dall’alto uno che era caduto così in basso, e poi alzarono lo sguardo verso dove era asceso”.
Morte e resurrezione sono infatti i contenuti di un disco che ha ovviamente a tema la morte, quattro anni fa, del figlio Arthur, 15 anni. Il precedente Skeletons Tree, che molti avevano collegato a questo evento, come ha detto lui stesso era stato invece composto prima della morte del ragazzo. Quelle canzoni erano però una sorta di profezia. Adesso Cave ha sentito il bisogno di affrontare, a modo suo, l’evento che ha sconvolto e cambiato, probabilmente per sempre, la sua vita e il suo approccio alla musica.
Da sempre l’artista ha cantato la morte, da ogni angolazione possibile, anche evocandola. Adesso ne canta la resurrezione, non della persona morta che ha un percorso tutto suo, ma di chi da questo dolore indicibile (nessuno dovrebbe mai sopravvivere ai propri figli) è stato colpito. Una sorta di karma, il suo.
Il primo cd, ha spiegato Cave, sono le “canzoni dei bambini”, il secondo quelle dei “genitori”. I pezzi del primo disco sono minimalisti al massimo: voce, pianoforte, tastiere suonate come una sorta di orchestra che evocano aperture celestiali, voci di donne, cori angelici. Canzoni sussurrate, quasi recitate, che finiscono improvvisamente, quasi il cantante non riuscisse a proseguire, di una insostenibilità all’ascolto quasi impossibile tanto sono intime, con la voce del cantante che più volte sembra spezzarsi nelle lacrime. Ricordano l’ultimo Leonard Cohen, quello che annunciava la sua morte su disco. Le immagini cantate sono una invocazione di catarsi, mischiano elementi diversi, ma uno è il filo rosso, la perdita del figlio e la domanda che scorre sotto traccia, dove sei adesso? “Un prete corre in chiesa; un poco di fede può durare a lungo; tutti hanno un cuore, tutti sono crudeli; vorrei che il tempo risolvesse le cose; il treno sta arrivando riportandomi il mio bambino; c’è qualcosa di difficile da spiegare; una foto di Gesù tra le braccia della madre, un uomo che si chiama Gesù ha promesso di lasciarci con una parola di salvezza; un uomo pazzo di dolore appeso a un albero, tutti stanno appesi a un albero”. Frasi gettate qua e là in mezzo a finestre spalancate, stanze d’albergo, pioggia fitta che cade. E’ la condizione umana, quella di cui canta Nick Cave, come può solo vederla chi ha perso un figlio e si trova dopo essere passato dall’abisso a guardare una realtà totalmente diversa, una realtà che appare e scompare, come in un sogno. Spining Song, Waiting For You, Ghosteen Speaks (maestosa con quel coro che ricorda quelli usati da Elvis, che non è gospel,sono come voci di fantasmi che echeggiano in una chiesa abbandonata, una liturgia a cui non partecipa nessuno, con il cantante che continua a ripetere “ti sono vicino, cercami”), Bright Horses sono canzoni di una bellezza e tenerezza purissima. Leviathan è addirittura un mix di suoni elettronici in loop, con poche parole ripetute come se l’artista fosse in uno stato di ipnosi.
Gli anglo-americani hanno due parole per esprimere quella che per noi è una parola sola, “solitudine”. Dicono “solitude” e “loneliness”. La prima significa una posizione dell’umano disperante e disperata, la seconda un luogo dove ritrovare se stessi, lontani dal mondo. In uno dei suoi “Red Hand Files”, Cave diceva che “aloneness and loneliness sono due cose molto diverse. Passo gran parte del mio tempo da solo; l’ho sempre fatto. Ho imparato che essere solo, privo di ciò che forse sembra indispensabile per alcuni, vuol dire essere impegnato nel significato e nella divulgazione. Per me è un luogo essenziale che intensifica l’essenza di se stessi, in tutto il suo bisogno dilagante. È il sito di demoni e angeli; un posto tranquillo, infestato e un luogo di scoperte impreviste. Un luogo di smascheramento e rinascita. Può essere laborioso o malinconico o spaventoso, a volte tutto allo stesso tempo, ma al suo interno c’è la sensazione di una promessa latente che detiene un grande potere. Come Gesù che prega da solo nel giardino o Maria Maddalena sola alla tomba di Cristo, la solitudine rivela momenti che tremano sull’orlo della rivelazione e del grande cambiamento”. In queste canzoni così scarne e allo stesso tempo evocative, nella loro trascendenza (ci si domanda cosa abbiano fatto per tutte le sedute di registrazione Thomas Wydler, il batterista dei Bad Seeds, e il chitarrista George Vjiestica, seppure accreditati nei crediti del disco), emerge un desiderio di pace dell’anima potentissimo.
Il secondo disco apre un capitolo diverso. Due sole canzoni, Ghosteen e Hollywood, e un brano recitato, spoken words, Fireflies. I toni qui diventano decisamente più oscuri. E’ la voce dei genitori. Mentre nel primo disco era il figlio che dal posto in cui si trova mandava messaggi a tratti consolatori, a tratti impossibili da afferrare, come in quelle radio dove i ghost hunters cercano di catturare le voci dei defunti, qua c’è tutto il dolore, la ferita che non si chiuderà mai su questa terra per la perdita. Sonorità cinematiche, con il sintetizzatore che domina il panorama musicale, sembra di trovarsi in un film di Terence Malick. Musicalmente, Ghosteen è più ricca e mossa dei brani del primo disco, brano bellissimo, esaltato dall’arrangiamento orchestrale e ancora quelle voci di fantasmi e angeli che circondano in un crescendo epico la voce del cantante. Siamo a livelli mai affrontati, musicalmente, da Nick Cave.
Fireflies è la parola definitiva su Arthur: “noi siamo qui e tu sei dovunque tu sia”. Diceva Allen Ginsberg a Patti Smith dopo la morte del marito: “Lascia andare lo spirito dei morti e continua la tua celebrazione della vita”. Sì, i morti bisogna lasciarli andare. Per rispetto loro e nostro.
Il disco si chiude con Hollywood, la voce di Nick Cave è un pianto, lungo e a stento trattenuto, tocca vertici a lui sconosciti con un falsetto strepitoso, è un pezzo pauroso, un canto nel buio di una camera da letto dove le finestre sono serrate e la porta chiusa. Mai nella canzone rock ci si è immersi in un baratro così angosciante:
Kisa si sedette nella vecchia piazza del villaggio
Abbracciò il bambino, pianse e pianse
Disse che tutti perdono sempre qualcuno
Quindi entrò nella foresta e seppellì suo figlio
Tutti stanno perdendo qualcuno
Tutti stanno perdendo qualcuno
È una lunga strada per trovare la pace della mente, la pace della mente
È una lunga strada per trovare la pace della mente, la pace della mente
E sto solo aspettando che arrivi il mio momento
E sto solo aspettando che arrivi la pace, che arrivi la pace
Difficile riascoltare un disco come questo. E’ qualcosa da maneggiare con cura. Si pone direttamente nella scia di quell’altra grande celebrazione della perdita che fu Magic and Loss di Lou Reed. Non è rock, è una unica e solitaria preghiera. E’ un grido sommesso, un lamento funebre che solo Nick Cave poteva avere la forza di comporre. Siamo convinti che questo disco abbia una forza salvifica catartica. Chi ha subito una perdita, troverà una sorta di conforto. Non potremo mai ringraziare abbastanza l’artista australiano per questo suo coraggio nell’esporsi. Inutile fare paragoni con quanto ha fatto fino a oggi. “Due giorni dopo la morte di nostro figlio, Susie e io andammo sulla scogliera dove cadde. Quando Arthur era un bambino piccolo, aveva sempre avuto un debole per gli scarabei di coccinella. Li adorava. Li disegnava. Si è identificato con loro. Ne parlava costantemente. Mentre eravamo seduti lì, una coccinella atterrò sulla mano di Susie. Entrambi l’abbiamo vista, ma non abbiamo detto nulla, perché anche se ne abbiamo riconosciuto il triste significato, non volevamo sminuire l’enormità della tragedia con qualche dimostrazione sentimentale di pensiero magico. Eravamo nuovi al dolore. Non eravamo a conoscenza dei particolari del dolore. Quando tornammo a casa, mentre stavo aprendo la porta di casa, un’altra coccinella atterrò sulla mia mano. Da allora Susie e io vediamo coccinelle dappertutto. Quando Warren e io stavamo lavorando all’ultimo album, un gruppo di coccinelle entrò in studio. Non so cosa dire di questo fenomeno, ma ogni volta che vedo una coccinella ricevo una specie di scossa di riconoscimento che c’è qualcosa in gioco che va oltre la mia comprensione, anche se, con ogni probabilità, è solo la stagione delle coccinelle. Questa necessità di credere in qualcosa al di là di noi stessi è fa parte dell’essere umano. Gli esseri umani sono essenzialmente creature religiose di natura; siamo posseduti da inclinazioni e intuizioni in contrasto con il mondo razionale. Per alcuni di noi, questo non è semplicemente un pio desiderio o mancanza di coraggio o essere “stupido”, ma un istinto di sopravvivenza che può dare un grande significato alla nostra vita, indipendentemente dal fatto che sia o meno conforme ai fatti reali”. E così sia.