Se c’è qualcosa con cui esci da un concerto di Nick Cave oggi (oltre alla certezza di aver assistito a uno spettacolo musicalmente spettacolare) è una buona dose di autostima, quella che il cantante ha diffuso per tutta la serata: “You’re beautiful! Stop!” (tu sei bellissimo, basta!). In un’epoca storica in cui il cinismo e la mancanza totale di considerazione di te stesso è stata profusa a dosi massicce, facendoti credere che vali solo per quanto produci e quanto sei in grado di consumare, Nick Cave invita, anzi ordina, a riprendere in mano se stessi perché “siamo meravigliosi” in quanto siamo, non perché appariamo secondo le regole di mercato.



L’invito è contenuto in modo esaltante nella bellissima Conversion e poi per tutta la serata Cave tra un brano e l’altro continua a ripeterlo “you’re beautiful you’re beautiful” invitando il pubblico a un botta e risposta nello stile da predicatore che ormai, come il brano stesso, ha assunto “risorgendo” dalla morte di due dei suoi figli e presentandosi sul palco non più come il re degli inferi, ma come un uomo nuovo. Non ha però perso le sue caratteristiche di performer scatenato e luciferino, muovendosi con il suo corpo magrissimo indossando l’usuale giacca e cravatta da poeta maledetto come un serpente, disegnando silhouette euforiche e saltando e scalciando senza sosta. Ma l’accompagnamento sul palco di quattro coristi di colore (tre donne e un uomo) vestiti in sgargianti abiti di seta argentati e luminosi, fa sembrare il catino del Forum di Assago una cattedrale gigantesca illuminata da colori rossi, blu, arancioni e bianchi sfolgoranti. Cave però non ha perso la consapevolezza del male che ci assale, nonostante il ruolo di “convertito” che lui stesso si è assunto. Lo dice lui stesso quando introduce O Children, scritta anni fa per i suoi due figli gemelli, uno dei quali morto mentre era sotto uso di droga, scusandosi della sua (nostra) incapacità ad essere genitori. Sul suo ruolo di “convertito” ci scherza sopra, facendo capire di non prenderlo troppo sul serio. Quando uno spettatore gli offre la sua t-shirt per asciugarsi il sudore, lui lo fa. Quando altri spettatori fanno lo stesso, lui li manda a quel paese dicendo “non ho bisogno delle vostre t-shirt del c***o”.



A differenza di ogni altro artista, che si nasconde e si allontana dal pubblico su palchi esageratamente giganteschi ponendo fra di loro e l’audience un muro di transenne a molti metri di distanza, Cave lascia gli spettatori delle prime file appoggiati direttamente alle assi del palcoscenico come si usava negli anni 70, stando in mezzo a loro, stringendo ogni mano, indicandoli uno ad uno con quella empatia che solo Bruce Springsteen sa comunicare. E’ una liturgia di benedizione e redenzione, con un Nick Cave visibilmente soddisfatto della risposta del pubblico. È un rumore gioioso come quello a cui fa riferimento la bella Joy.



In modo coraggioso (solo Bob Dylan oggi fa lo stesso) Nick Cave propone quasi interamente il suo ultimo disco, Wild God, un lavoro difficile e non immediato, obbligando l’ascoltatore a non lasciarsi andare in un karaoke di grandi successi come fanno invece tutti gli artisti della sua età, per accontentare il pubblico, ma invece sfidandolo. Il risultato, benché non immediato, è esaltante perché questi brani sembrano pensati proprio per essere eseguiti dal vivo, con potenti break rumoristi devastanti, con dei crescendo mozzafiato e con l’accompagnamento corale puramente gospel che sono una esperienza, come dicono gli americani, “uplifting”. Se mai saremo accolti in paradiso, lo saremo con questa musica. Se non lo saremo, pazienza: all’inferno ci aspetterà comunque Stagolee e le sue murder ballads.

In mezzo e nel finale qualcuno dei classici che hanno fatto la sua reputazione vengono comunque eseguiti (ma anche un brano recente che è già entrato di prepotenza fra i suoi classici, una Jubilee street che porta dall’inferno al paradiso), da Tupelo a From her to eternity, da Papa won’t leave you Henry a The Mercy seat, concludendo con una straordinaria e debordante Weeping Song. Per poi tornare ancora una volta sul palco questa volta da solo al pianoforte per una intensa e commovente Into your arms.

Uscendo storditi da questo spettacolo esaltante e toccante allo stesso tempo, conserviamo nella testa i versi di quella canzone incredibile e profetica, scritta quando la vita di Nick Cave era attraversata dallo sconvolgimento, ma che già faceva intravedere i segni della salvezza. Adesso il ritornello non è più al singolare, ma al plurale, segno della necessità di un abbraccio che solo può redimerci:

Questa è una canzone per piangere

Una canzone in cui si piange

Mentre tutti gli uomini e le donne dormono.

Questa è una canzone per piangere

Ma non piangeremo a lungo.

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