Eravamo convinti che Nick Cave avesse raggiunto la pace con se stesso e con il mondo anni fa, quando cantava di una casetta in cui viveva al riparo dal male del mondo con la sua compagna e i suoi figli, in un villaggio lontano dalle brutture metropolitane con una chiesetta bianca e dove c’era un ospite sempre presente Abbiamo posato cavi e fili Abbiamo spaccato la legna e alimentato i fuochi Abbiamo illuminato la nostra città quindi non c’è Luogo in cui il crimine può nascondersi La nostra chiesetta è dipinta di bianco E nella sicurezza della notte Restiamo tutti silenziosi come dei topi Perché la parola si è realizzata Che Dio è in casa Non c’è motivo di preoccuparsi adesso Dio è in casa).
Pensavamo che, superata ogni abuso, e dopo essersi stancato di cantare il male, il peccato, il diavolo, il cantante australiano avesse trovato un amore più forte di tutto ciò (Credo nell’amore E so che lo fai anche tu E credo in una sorta di percorso Che possiamo scendere, io e te Quindi tieni le candele accese Rendi il suo viaggio luminoso e puro Che continuerai a tornare Sempre e sempre Tra le mie braccia, oh, Signore).
Ma tutto questo succedeva anni fa. Non bisogna mai infatti sfidare la realtà, perché la realtà è più grande di noi e ci si sbatte contro come un treno che deraglia. In fondo, come diceva John Lennon, “la vita è ciò che succede quando sei occupato a fare altri progetti”. Nei progetti di Nick Cave non era compresa la cosa più orribile che possa succedere a un padre, sopravvivere ai propri figli (ne ha persi due nel giro di pochi anni).
Per tutta la vita, nelle sue canzoni e nei suoi libri, Cave aveva evocato le forze del male, ne aveva cantato l’insostenibile bruttezza, la morte violenta degli innocenti, aveva disegnato i contorni di Lucifero, aveva portato sui palcoscenici a danzare con lui l’ombra demoniaca di Stagerlee. E un giorno il diavolo venne a bussare alla sua porta per davvero.
Superare la perdita di un figlio per un genitore è impresa titanica se non impossibile. O hai già la fede o la trovi, altrimenti sprofondi negli abissi più profondi. O, come la maggior parte delle persone, non parli di queste perdite, ti rinchiudi dentro te stesso a coltivare una rabbia sempre più forte verso la vita. Nick Cave, che è sempre stato interessato all’aspetto religioso, la fede l’ha trovata: “La cosa che è successa che ha cambiato tutto è stata che Arthur è morto (…) la religione è la spiritualità corredata dal rigore e avanza delle richieste (…) non sono affatto interessato alle idee più esotiche di spiritualità. Sono attratto da quelli che molti considererebbero tradizionali principi cristiani” ha detto nel suo recente libro, Fede, speranza e carneficina in cui racconta il calvario e la resurrezione vissuta dopo la morte dei figli.
Ne ha parlato moltissimo, di questo percorso, nella sua newsletter (come ha detto magnificamente una giornalista del New Yorker, spesso Cave agisce come “un Virgilio inaspettato per chiunque sia impantanato nel dolore e cerchi una guida calorosa ma non sentimentale”), in modo onesto, umile, empatico e diretto e dopo alcuni dischi in cui ha raccontato l’attraversamento dell’Ade (“Gli ultimi due dischi sono stati qualcosa di molto fragile, vulnerabile”) e i i fantasmi che lo popolano, è arrivato adesso a un approdo che per chi lo conosce bene era inevitabile. “Il mondo” ha detto “non è un posto crudele ma qualcosa di meraviglioso in cui vivere, questo disco è gioioso, è un disco felice, in un modo in cui pensavo fosse impossibile”. Voleva intitolarlo Conversion dal titolo di una canzone che appare nel disco, ma gli è sembrato un po’ troppo.
È anche il primo disco dopo anni in cui Cave ha richiamato con sé i Bad Seeds, il gruppo con cui ha fatto i suoi dischi migliori anche se nel frattempo sono cambiati un po’ tutti, e i pezzi sono sempre composti con Warren Ellis, ma sicuramente anche se non c’è la forza distruttiva di un tempo, non c’è più quell’aurea nuvolosa e a tratti inconsistente (volutamente) dei tempi recenti.
Ci sono canzoni bellissime (su tutte, almeno per i vecchi fan dei Bad Seeds, la splendida Long and dark night), c’è molta elettronica che a qualcuno può infastidire (O Wow O Wow è quasi techno, con la voce della scomparsa ex compagna Anita Lane presa da una registrazione telefonica; più disturbante di così solo Cave può esserlo) e soprattutto ci sono inserimenti nei finali di molti brani di cori vocali, devastanti nella loro potenza esecutrice, quasi terrificanti e annichilenti (Wild God che tra l’altro è una interpretazione estremamente dylaniana da parte di Cave; Joy; Conversion, un botta e risposta tra Cave e il coro quasi R&B il cui finale corale è quasi insostenibile nella sua potenza, e nella conclusiva e breve As water cover the Sea, che qui invece sembra quasi una interpretazione dell’Elvis anni 70, brano epico e glorioso con il coro che canta “Pace e buone novelle”).
C’è insomma tanto in questo disco, da ascoltare e riascoltare, da interpretare e capire (a proposito della curiosa Frogs, Cave ha detto che “l’omicidio di Caino da parte di suo fratello Abele è la prima interazione umana al di fuori del Giardino dell’Eden, e questa immagine del peccato e della sofferenza costituisce una base atroce per la Bibbia stessa e anche per la canzone Frogs (…) quelle piccole rane, siamo io e te, e tutta l’umanità, che facciamo un balzo momentaneo verso l’amore, la meraviglia, il significato e la trascendenza, solo per atterrare di nuovo nella fogna”.
Attraverso la sua musica (e nella sua stessa vita), Cave ha viaggiato attraverso l’oscurità, si è tuffato in profondità nello squallore e nella tragedia, eppure da qualche parte in lunghi corridoi bui è sempre stato in cerca di salvezza. Anni fa, l’estasi di Nick Cave sarebbe stata diversa: ridere con la bocca piena di sangue, consumare con occhi selvaggi tante droghe. Nel loro 18esimo album, Wild God, Nick Cave And The Bad Seeds presentano qualcosa che, nel loro mondo, è molto più scioccante: la felicità.
Ha detto Cave che la musica è una delle ultime opportunità per raggiungere la trascendenza e certamente questo disco è un viatico per raggiungerla: “La musica ha la capacità anche per un momento limitato di condurci in un luogo sacro. La musica risuona nel desiderio che molti di noi provano in modo istintivo, quel buco a forma di Dio. E’ la forma d’arte che può effettivamente riempire quel buco perché ci fa sentire meno soli a livello esistenziale. Ci fa sentire connessi a livello spirituale.
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