Nicola Pietrangeli ha rilasciato una bella intervista ai microfoni del Corriere della Sera, in cui ha affrontato tantissimi argomenti a cominciare dalla fede: «Credo in Dio? Quando mi serve – dice l’ex star del tennis italiano – come tutti i vigliacchi. Pregavo che l’avversario facesse doppio fallo: in russo, per non farmi capire. Adoro le messe ortodosse. Ogni sera prima di addormentarmi mi faccio il segno della croce. Spero, come tutti, di morire nel sonno. Ma finora mi sono sempre svegliato». Il collega del Corsera chiede quindi a Pietrangeli se abbia paura di morire: «A volte penso di buttarmi dal sesto piano; ma se mi faccio male? Poi penso che vorrei essere cremato; ma se mi brucio?».



Pietrangeli ha recentemente scritto una biografia in cui ha raccontato di aver rischiato due volte di morire: «A Tunisi abitavamo alle porte della medina. Cadde una bomba, e ci trasferimmo in campagna. Ma una notte gli aerei che erano andati a bombardare Biserta si liberarono del carico proprio sopra la nostra casetta, che si afflosciò: fummo salvati dall’intercapedine che mio padre aveva fatto costruire. Un’altra volta papà e mamma, per restare soli, mi mandarono a fare una passeggiata. Mi inoltrai tra i resti di una battaglia, tra armi e munizioni. Non avevo letto la scritta: campo minato. Dio non lo so; ma l’angelo custode esiste di sicuro». Pietrangeli è famoso per la racchetta ma anche per i suoi flirt, visto che si parla di qualcosa come 1.400 donne: «Esagerati. Persino Califano si è fermato a mille… Mai tenuto contabilità: sarebbe stato orribile, e pure noioso. Ho avuto quattro grandi amori; e ogni volta è stata lei a lasciarmi. Mia moglie Susanna, dopo tre figli, mi abbandonò per un altro. Lorenza perché non volevo sposarla. Paola, l’ultima, perché non volevo convivere. E Licia Colò? Mai capito perché».



NICOLA PIETRANGELI: IL PAPA’, LACOSTE E IL CALCIO

Curioso l’aneddoto legato alla vita a Roma nel dopo guerra, legato a Lacoste: «Papà lavorava per l’ambasciata francese: capo becchino. Doveva recuperare i caduti nella campagna d’Italia. Lo accompagnai nei cimiteri di Venafro, in Molise, e di Pederobba, davvero con due b, in Veneto, che risaliva alla Grande Guerra. Divise lacerate, corpi straziati, mucchi di ossa: era un lavoro duro. Poi si mise a vendere le Lacoste. Aprì un negozio di magliette? No no: andò proprio da René Lacoste, il Coccodrillo, uno dei quattro moschettieri che avevano portato il tennis francese a vincere tutto. Fu un boom pazzesco. Una maglietta costava 2.800 lire. Quando diventai campione, proposi a papà: io le sponsorizzo, e tu le vendi a cento lire in più. Disse no: il prezzo lo faceva René, non noi. Arrivò il figlio di Lacoste, che voleva solo magliette rosa o nere. Papà gli disse che in Italia non poteva funzionare: rosa era da checca, nera da fascio… Litigarono e mio padre ebbe il primo infarto. Poi gli tolse il marchio, ebbe il secondo infarto e morì. Lacoste junior ha fatto morire papà».



Pietrangeli prima di diventare un asso del tennis è stato un grande calciatore: «Sono laziale da sempre. Ma quando volevano mandarmi alla Viterbese, o alla Ternana non ricordo bene, scelsi il tennis. Però ero amico di Maestrelli, che mi faceva allenare con la Lazio dello scudetto. Mi allenavo anche con la Juventus? Quando lavoravo a Torino alla Lancia andavo spesso a pranzo con Franco Causio. Così un giorno mi portò al campo. Feci due gol a Zoff: il primo casuale, il secondo con un bel pallonetto. Negli spogliatoi lo presero in giro: “Drago, ti sei fatto fare due gol da un vecchietto come Pietrangeli…”. La partita successiva prendo palla e lo stopper, Francesco Morini, mi falcia. Riprendo palla e mi rifalcia. Alla terza volta lo affronto: Francesco, cosa ti ho fatto? E lui: scusa Nicola, me l’ha chiesto Zoff…». Si parla quindi di tennis, a cominciare dal più forte italiano in circolazione: «Musetti non è il più forte ma è quello che gioca meglio. Sinner ha tutte le qualità per vincere a lungo. Berrettini tornerà, ma ha lo stesso problema di Panatta: gambette che non reggono un busto così forte».

NICOLA PIETRANGELI E IL RAPPORTO CON PANATTA

E a proposito di Panatta, con Pietrangeli è sempre stato un amore-odio: «Vuol sapere la verità? Ad Adriano io ho sempre voluto molto bene, e ancora gliene voglio. Per me, figlio unico, Adriano era il fratello più piccolo che non avevo mai avuto. Per questo nel 1978 ho sofferto così tanto per il suo tradimento. Nel 1975 in Davis erano usciti al primo turno. Con me capitano vinsero nel 1976, prima e unica volta nella storia, e arrivarono in finale nel 1977. Poi ci fu il processo staliniano. Mi convocano al Jolly Hotel di Firenze. Un plotone d’esecuzione: il presidente federale Galgani, Belardinelli, Panatta, Bertolucci, Barazzutti, Zugarelli. Tutti zitti. “Allora, che c’è?”. Comincia Bertolucci: Nicola, noi non proviamo più per te quello che provavamo prima… E io? Mi alzo, dico “andate tutti affanculo”, e me ne vado».

Quindi Pietrangeli ha continuato, sempre su quell’aneddoto: «Degli altri non mi importava nulla. Soffrii solo per Panatta, che voleva al mio posto il suo amico Bitti Bergamo. Per cinque anni con Adriano non ci siamo parlati. Poi una sera, a Cortina, un po’ bevuto, venne a scusarsi e a piangere sulla mia spalla. Anche se ora nega». Chiusura sul campo del Foro Italico a lui dedicato: «E ho una nipotina bellissima che si chiama come me: Nicola Pietrangeli. Avrà sempre uno stadio con il suo nome».