Nicola Puglielli è un personaggio eccentrico del jazz italiano: un eretico che ha preferito ad una certa vita da club d’élite di addetti ai lavori un colore tutto suo, fatto di esplorazione e ricerca intorno alle possibilità espressive e timbriche della chitarra. Pur dotato di significative qualità virtuose, che lo hanno portato sul palco, tanto per dire, con Massimo Urbani, Giovanni Tommaso o Philip Catherine, il chitarrista romano è sembrato volersi concentrare su un’idea inclusiva di repertorio, capace di cogliere il filo rosso di un discorso musicale non interrotto tra classica, folk, jazz e pop. Dato l’obiettivo, da anni cerca di raggiungere una sintesi dei linguaggi dove i brani siano “tracce”, in senso stretto, capaci di ricondurre ad una casa-base: la musica.



Ecco perché ogni suo nuovo lavoro è una specie di raro quadrifoglio, in un panorama discografico abituato a produrre (spesso in modalità random) molto di pochi e con molto poco da dire. Da pochi giorni è disponibile, digitale e fisico, il suo “Guitar solo” (ed. Terresommerse), che è stato presentato alla Casa del Jazz il 15 ottobre, tempio di buona musica e radar di qualità. Sulla copertina dell’album un ritratto di Puglielli nella Valle della Caffarella; immagine piuttosto curiosa che tuttavia fornisce una prima indicazione strategica sul contenuto. Vediamo.



Quando Romolo, primo re di Roma, morì, dopo qualche trambusto per la successione fu scelto Numa Pompilio, con un accordo tra i Sabini e i Romani. Sembra fosse mite e poco incline alla guerra, nato com’era con una forte religiosità che lo costringeva a guardare oltre. Ascoltava in particolare Egeria, la ninfa che, rimasto vedovo, lo accompagnava per lunghe passeggiate nei boschi sacri; pare che presto arrivò l’amore e un secondo matrimonio felice per il Re. Egeria era una delle quattro ninfe Camene, che possedevano la facoltà di ispirare attraverso il canto. Le passeggiate tra la Ninfa e il Re potrebbero essersi svolte dove oggi c’è il ninfeo intitolato alla sposa, nel cuore del Parco della Caffarella che è parte dell’Appia Antica.



Il legame con le quattordici tracce di Guitar Solo è esattamente in quella sensazione di canto pensoso e denso di fiducia nelle possibilità comunicative della musica, veicolo di storie dentro altre storie, racconto privilegiato per suoni e possibile motore di comunità legate dall’idea di un “oltre” la cronaca e l’angustia del presente. Il silenzio di quella valle scoscesa fatta di doline dolci è la prima amplificazione per eco del suono ed è qualcosa che riguarda da vicino la masterizzazione di brani che molto lasciano alle pause e ai riverberi. Costruito nell’anno di pandemia quando in senso concreto ed in senso figurato il grande assente è stato il “respiro”, il chitarrismo fortemente dinamico di Puglielli restituisce esattamente una sensazione di ariosità diffusa.

L’album contiene metà tracce  originali e metà riletture di brani tradizionali (The ballad of the fallen), classici (Stride la Vampa di Verdi, in un arrangiamento davvero raffinato), folk (Berimbau di Powell), manouche (Manoir de mes reves di Reinhardt), pop (Ticket to ride dei Beatles) e standard jazz (Django di Lewis). Questo eclettismo, possibile solo a fronte di una padronanza solida dello strumento, consente all’ascoltatore di solidarizzare con idee musicali diverse, ma legate da due fattori: la costruzione del suono e la centralità della melodia. Ed è soprattutto la cura nell’esposizione dei temi e nel tenere la barra armonica il miglior pregio di Guitar Solo, che di suo si trova discograficamente, senza neanche troppo timore reverenziale, in mezzo ai giganti della chitarra jazz (ma non solo) che hanno evidenziato nella registrazione a solo il massimo delle capacità espressive raggiunte.

Impossibile poi non notare come la selezione del repertorio debba necessariamente essersi svolta considerando musica elettivamente popolare (Giuseppe Verdi dei Trovatori, what else?) ed evidentemente non populista, offerta per costruire un dialogo immaginario lungo le impronte della storia; l’identità di Puglielli in questo album è identificabile con un’idea, per così dire, solidamente “Romantica” del linguaggio musicale, anche qui non rischiando mai il romanticismo da salotto. Un crinale complesso nel quale incunearsi, dunque, che il chitarrista sfida con una improvvisazione, quella sì, virtuosa intorno agli stilemi del jazz e soprattutto con la scrittura di arrangiamenti rigorosi e di gran nitore.

Una passeggiata dentro la storia, insomma, che inizia tra i clivi delle rovine dell’antica Roma e finisce per addipanare il lungo filo del piacere di fare musica per gli altri.