Nicole Atkins ha dalla sua un impareggiabile modo di giocare e prendere alla lontana, tra ironia, graffio e dolci malizie, l’ideale destinatario del suo modo di fare e condividere musica. Nel suo prenderti e portarti nel suo mondo, fa trascorrere lunghi momenti irresistibilmente dolci e spensierati come lo potrebbe fare un’icona del varietà d’antan, tali da rendere il passaggio verso fasi più cariche, drammatiche e profonde come se fosse la cosa più facile e naturale di questo mondo.
Così si è presentata la cantautrice del New Jersey nella lunga e terribile fase dove la sfida è stata portare nelle case del pubblico social, un sabato sera all’altezza del compito assolto in passato dalle grandi espressioni di cinema, spettacolo e musical. Quello di intrattenere con grazia e di condurre con naturalezza quasi materna nel confronto con dolori e paure esistenziali.
Così in quel tremendo bimestre collegandosi al suo canale all’affacciarsi delle ore piccole, si poteva scoprire una Atkins muoversi con leggiadria tra presentazione del proprio nuovo e vecchio repertorio, lancio di performance di bravi artisti locali e immersioni nella Doris Day di Que Sera Sera. Quasi un “Nicole Atkins show” alla maniera di chi – con l’umiltà e la curiosità delle vecchie trasmissioni musicali – si propone di far conoscere nuove e risalenti espressioni artistiche, lontano dal chiassoso tamtam mediatico della musica in tv come oggi la conosciamo.
“Italian Ice” arriva a completamento di uno scopo perseguito con cura e assiduità dalla grande musicista americana. Operare la migliore sintesi della ricerca che l’ha vista muoversi con mirabile agilità tra le pieghe della canzone retrò, coniugandola in maniera mirata con le istanze musicali della modernità.
Come nelle sue uscite più intense e ispirate – la saga pop-rock noir e decadente di “Mondo Amore” e la magniloquenza calibrata del cantautorato semi-prog di “Slow Phaser” – in “Italian Ice” si arriva in maniera definita e musicalmente persuasiva al culmine del percorso affrontato. A tre anni da “Goodnight Rhonda Lee”, le incertezze e le scorie di quel mini-pop musical che celebrava a modo suo la liberazione dall’odiata parte di sé, si trasforma in un racconto puro e gioioso di un desiderio incontaminato di felicità proveniente da un tempo immemorabile.
Una fase di vita portata a termine in maniera talmente consapevole che le tematiche dei brani, sono illustrate dalla stessa autrice in un commentario canzone per canzone affidato alla stampa e facilmente reperibile online.
Nelle liriche così raccontate è possibile riscoprire il tipico linguaggio della Atkins fatto di narrazioni tra sogno, realtà, immagini surreali e nitide visioni spirituali. Con le note e gli accordi del disco ci si immerge per contro in un’alchimia misteriosa che si commenta da sé e che l’autrice – nelle varie interviste rilasciate – riassume come frutto dell’amore personale per la musica dell’epoca delle stazioni radio AM.
L’ascolto è contrassegnato da varie sezioni che inizialmente assecondano le sperimentazioni applicate dall’autrice al mondo della musica pop. AM Gold è la ballad che tra linee d’archi, fiati e irresistibile carnalità soul, si avvale nei tocchi evocativi del piano di una musicalità prog, Mind Eraser la messa a confronto tra canzone vintage e droni post-rock, Domino la dance fusion ’70 passata al setaccio dell’electro ambient odierno. La scrittura del grande american songbook mediato dalle istanze beatlesiane, caratterizza le melodie balsamiche e suadenti di Forever e Captain.
La parte intermedia del disco svela – grazie a canzoni di una freschezza basica e istintiva come Never Going Home Again, St. Dymphna, Far From Home e A Road To Nowhere (cover di Carole King) – l’intento primario perseguito della Atkins. Addentrarsi con orgoglio e passione priva di malizie in quello che i critici usa e getta liquidano da sempre come datato, esaltando di quel modo di far musica i risvolti eterni e intenzionali quanto quelli fragili e accidentali. La batteria scoppiettante che occupa un canale, l’assenza dei moderni suoni posizionati negli spazi intermedi, i toni medi e ovattati, il mischione delle esplosioni sonore degli strumenti al completo.
Fino ad arrivare all’ultima variazione di colore nella tavolozza. La leggerezza aerea fine anni ’50 di These Old Roses e la conclusiva In The Splinters a suon di spumeggiante e stentoreo ragtime e honky tonk.
Il ritorno di Nicole Atkins, la sua ampia gamma dinamica vocale tra calore familiare e debordanti altezze sensuali, ci offre in definitiva uno spaccato di quella grande musica universale che riesce a scomporre e ricomporre il consueto e l’imprevedibile di ieri e oggi, con il prezioso contributo di coautori – tra tutti l’immancabile Jìm Sclavunos – e musicanti di pregio di stanza tra Muscle Shoals in Alabama e Battle Tapes Recording di Nashville. Un’espressione che raccoglie stima critica diffusa, seguiti consistenti per i parametri della nicchia ma senza snobismi di sorta, anzi con la pazienza di attendere chiunque si voglia accostare a un modo di fare musica che – tra gli alti e bassi dei ricambi generazionali – ha sempre trovato un suo posto definito nella storia.