Ho pesato la tristezza e l’ho scoperta pachidermica. Maggio, senza il Giro d’Italia, è il volto della malinconia: non è più domenica da quando Baggio non gioca più, non è più maggio quando il Giro non gira più. Erano anni, da sempre, che quando partiva il Giro sentivo che accadeva in me qualcosa di particolare: scoprire l’Italia inseguendo una bicicletta non era soltanto sport, un’emozione, un’attesa. Era l’incanto di (ri)leggere il romanzo dell’Italia attraverso gli occhi del Giro che, per l’occasione, diventava cantastorie di un paese abitato da campioni e gregari, alleanze e guerre, arresti e riprese.
“Passa il Giro d’Italia, andiamo a vederlo?”: iniziava così quell’attesa che, mentre la vivevi, affrescava i sogni dei bambini, popolava i racconti dei nonni, complicava gli spostamenti tra paesi. Passava gratis il Giro d’Italia, sotto casa, giusto per la piazza del paese: ragione sufficiente per dirti ch’era un qualcosa di fiabesco, di colorato, poesia. Gli hanno sempre rinfacciato d’essere lo sport dei poveracci, i poveri hanno sempre detto grazie restituendo in popolarità: “Il ciclismo – scrive Pier Paolo Pasolini – è lo sport più popolare perché non si paga il biglietto”. Manco il doping è riuscito a sminuirlo nel cuore della gente: massacrato, rinasce sempre dalle sue ceneri.
Ricordo i giorni di maggio: tutto ruotava attorno al pomeriggio della Rai. Ci si organizzava, si spingeva sul dovere, ci si prendeva avanti per godere l’euforia della tappa in santa pace. Dal divano di casa, dalla bottega del meccanico, dal bar del paese, dallo schermo di un telefonino.
Le giornate più belle, però, erano quelle per strada, che è il vero stadio del ciclismo: levatacce all’alba, in sella alla bicicletta ad anticipare il gruppo, i muri di gente sulle salite alpine. Un’attesa che pochi sanno capire: per pochissimi istanti, trenta secondi o poco più, ore e ore di attesa trepidante, incollati ad una radio, fiutando la sagoma della carovana, aspettando il loro passaggio: “Ecco il gruppo: arrivano, spostati!”. Le magliette a colori, i numeri sulla schiena, la marca della bici: l’ammiraglia, le moto della Rai, il seguito di quel mondo di fantasia. Tempo di un flash, il palpito d’una borraccia strappata alla fortuna: poi tutto finisce, si allontana, torna nella penombra.
Resta la magia di poter dire a tutti “Io c’ero!”: sullo Stelvio, sul Gavia, sul Galibier o su chissà quale altra vetta l’amore ci abbia sospinti. C’ero quel giorno sul Mortirolo, 5 giugno 1999: “Io c’ero!”. Ad aspettare Pantani, in maglia rosa, ad immortalarmi sotto quello striscione: “Dio c’è, ed è pelato!”, in attesa di quel Pirata che non è mai transitato. Per me il ciclismo è morto in quell’alba di Madonna di Campiglio: con Pantani che sale in ammiraglia, che si cala nella tomba: “Inutile avere una bici leggerissima se ti porti nell’anima un corpo che pesa come un macigno” disse durante un’intervista. Detto e fatto: la cima rimase spoglia, il popolo muto.
È rimasto il Giro, però. Con i suoi muri di gente a bordo strada: braccianti, infanti, bischeri, preti, garzoni e puttane, maestre, scolari. Tutti piegati in avanti al passaggio del Giro: una sorta di reverenza, tanto di cappello, grazia ricevuta. Il bagliore di un istante. Poi tutto ritorna come prima: memoria, flash, il vento tra i capelli. A maggio, chiunque parta per il Giro, ritorna per un mese bambino. Un maggio senza il Giro che maggio è: senza i muri di gente sulle Alpi, la ressa al villaggio di partenza, i pedinamenti tra le ammiraglie, i capannelli per attendere l’eroe?
Quest’anno, non contenta, la pandemia ha costretto Mario a chiudere la sua bottega: è lì che ho imparato ad annusare l’odore dei tubolari, a ragionare sul millimetro, ad origliare l’epopea della bici. Un giorno gli ho portato un sogno, e lui me l’ha lavorato: è stata la mia prima bici, il destriero di infinite avventure. Finito l’allenamento, passavo da lui prima di ritornare a casa: i racconti, le tappe del Giro guardate assieme, le sfide da rilanciare. Adesso son cavoli: di mestizia!
Maggio, quest’anno, è una bottega d’artigiano chiusa più un Giro spento. È l’impronta che il virus è bastardo: sta cancellando pagine di storia, di bellezza.