Niki Lauda è morto all’età di 70 anni
Ci sono notizie che a un appassionato di Formula Uno circa cinquantenne come sono io tolgono un pezzo di cuore. È come se fossero la certificazione del tempo che passa, il rendersi conto di schianto degli anni volati in un lampo. Forse il confronto impietoso con un presente che ha perso di fascino, infarcito di baby-campioni costruiti al simulatore e di personaggi che vincono ma non scaldano i cuori più di tanto. Ebbene, la morte di Niki Lauda è senza dubbio una di queste notizie. Lui non era semplicemente un pilota, fosse anche fra i più grandi di questo sport. Era qualcosa di diverso, una sorta di icona stessa delle corse che aveva saputo fare della sua faccia sfigurata e del suo eterno cappello rosso sponsorizzato dei veri e propri simboli.
Senna, Lauda, Villeneuve: uomini che avevano conquistato le folle, trascinato nazioni intere, mosso sentimenti ed emozioni molto più grandi delle loro stesse imprese al volante. Uomini che servirebbero allo sport del 2000 come il pane. Che, forse, la morte contribuirà a rendere leggendari. Niki era uno di questi, un campione davvero fuori dal comune, dal carattere complesso e dal poliedrico talento, dotato di sublimi doti da collaudatore unite alle esuberanze velocistiche che egli ha saputo nel tempo addomesticare diventando maestro di tattica per antonomasia, fino a essere considerato pilota freddo e calcolatore, esattamente l’opposto delle valutazioni che si facevano di lui a inizio carriera. Il suo italiano-tedesco fatto di frasi secche e verbi all’infinito è diventato quasi una seconda lingua, qualcosa di simile alla firma di un pittore su una sua opera.
Per celebrarlo un canale televisivo ha già riproposto l’imperdibile Rush, il film di Ron Howard che ha raccontato il suo incredibile scontro-incontro-amicizia-rivalità con James Hunt, altro personaggio da romanzo. Un film che non gli rende giustizia del tutto, semplificando un po’ la sua personalità, ma che dà un’idea di che razza di uomo fosse.
Niki Lauda, dal nonno Hans al Drake
Esordì in pista a vent’anni con una Mini Cooper che aveva comprato chiedendo un prestito a suo nonno Hans, facoltoso banchiere. Ma quando questi si oppose con fermezza a sperperare altri soldi per assecondare quella passione da scavezzacollo che erano le corse, Niki non esitò a rischiare tutto per ottenere un prestito dalla banca “rivale” di quella della sua famiglia che gli permise di “comprare” un volante in F1 con la March per il 1971. Aveva cinque anni per restituire tutti i soldi. Ci riuscì. Non rivolse più la parola al nonno. Dopo due stagioni interlocutorie con la claudicante scuderia di Mosley, Louis Stanley gli offrì un posto alla BRM al fianco di Clay Regazzoni per il 1973. Fu proprio Clay, richiamato a Maranello per la stagione successiva, a suggerire a Enzo Ferrari di ingaggiare quel giovane austriaco che un giorno gli aveva dato un secondo in prova con la sua macchina solo “cambiando” qualche regolazione meccanica. Il “Drake”, da sempre affascinato dalle scommesse e che abbondava di “fiuto” per il talento puro, ascoltò Regazzoni e gli offrì un contratto. Fu in quel 1974 che emerse la sua straordinaria capacità di messa a punto della vettura – oggi nella F1 delle progettazioni al computer dote del tutto smarrita – che gli fruttò i primi trionfi: la “312 B3” era reduce da una stagione a dir poco fallimentare e si trasformò letteralmente nelle sue mani diventando una macchina vincente. Proverbiale il coraggio quasi sfrontato – mai visto a Maranello – con cui quel giovane irriverente austriaco diceva in faccia al Drake le sue idee. Si guadagnò la stima di Enzo Ferrari in poco tempo.
Niki Lauda e l’inferno verde
Lauda era però ancora “acerbo” e le sue prestazioni eccellenti in prova si traducevano solo raramente in una vittoria in gara, ma la maturazione del suo talento lo portò allo straordinario titolo mondiale del 1975 vinto dominando facilmente la stagione. Poi venne il fatidico 1976, quello raccontato da Rush, l’anno che probabilmente vedrà il più straordinario e avvincente Campionato del Mondo di Formula Uno della storia. Il celeberrimo incidente nell’”inferno verde” del Nürburgring – che segnò la chiusura del mitico circuito tedesco – lasciò sul volto di Niki i segni indelebili del fuoco che avvolse per lunghissimi secondi la sua Ferrari schiantatasi al Bergwerk. Fu salvato solo dal coraggio di Brett Lunger, Harald Ertl e Arturo Merzario che lo estrassero dalle fiamme. Dopo tre giorni dall’incidente, nell’ospedale di Vienna, era in fin di vita e ricevette l’estrema unzione. Il suo recupero fu prodigioso e repentino: tornò in pista a Monza con incredibile coraggio e in largo anticipo rispetto alle previsioni dei medici per tentare di difendere un titolo mondiale che era ormai già ampiamente conquistato, ma che ora gli veniva insidiato da James Hunt. Qualche settimana dopo, nel diluvio del Fuji, ultima gara in calendario, non se la sentì di continuare e si ritirò dopo due giri, lasciando la corona iridata all’inglese. Forghieri gli chiese se dovessero dichiarare che la macchina aveva avuto un guasto. Lui disse no: “Dite pure che avevo paura”.
Niki Lauda e il coraggio della paura
Quel “grande rifiuto” – uno degli avvenimenti più controversi e dibattuti della storia delle corse – segnò l’inizio della fine nei rapporti con Enzo Ferrari, una ferita che non si rimarginò nemmeno con la conquista del Titolo Mondiale ‘77, ottenuta grazie a una sagacia tattica e una costanza di rendimento che gli permisero di sbaragliare il campo con solo tre vittorie all’attivo. La trasformazione di Niki era compiuta. Fu proprio a Monza, il giorno della matematica conquista del titolo che annunciò il suo divorzio da Maranello per passare alla Brabham. Due anni discreti – con la “mitica vittoria sulla”BT48C” con “ventilatore” nel retrotreno in Svezia ‘78 – e poi il ritiro dalle competizioni, per mancanza di stimoli e per il desiderio di dedicarsi alla costruzione della sua compagnia aerea, la “Lauda Air”. Nel 1982 – c’è chi dice per soldi, chi più romanticamente per nostalgia – l’imprevisto ritorno alle corse con la McLaren, una scommessa da molti giudicata una pazzia. Nel 1984, dieci anni dopo il suo primo titolo, in una Formula Uno profondamente diversa da quella che lo aveva visto esordire tredici stagioni prima, Lauda fu ancora Campione del Mondo, battendo Alain Prost, futuro “Professore”, di mezzo punto. L’anno dopo la sua ultima, entusiasmante vittoria a Zandvoort. Da allora e nonostante gli anni, la sua popolarità è rimasta praticamente immutata. Da oggi è diventata leggenda.