La risposta di Hamas è arrivata per bocca di Osama Hamdan, alto funzionario del movimento islamico: no all’accordo per la tregua e la liberazione degli ostaggi, proprio come era stato prospettato, con l’intenzione però di proseguire il negoziato. Un orientamento poi confermato da Ismail Haniyeh, uno dei capi politici di Hamas, che ha ribadito di voler continuare a trattare. E qui sta il punto. Fra la fine della guerra chiesta dall’organizzazione palestinese e una tregua anche di qualche settimana offerta da Israele, forse è possibile ottenere una cessate il fuoco di qualche mese. Hamas potrebbe accettarlo sapendo che nel frattempo la diplomazia si muoverebbe per non tornare più a usare le armi, Netanyahu e il suo governo potrebbero accettarla perché, almeno in linea teorica, non significherebbe la fine dei combattimenti.
La questione vera, spiega Ugo Tramballi, editorialista de Il Sole 24 Ore e consigliere scientifico dell’ISPI, è che, nonostante i proclami di Israele, la neutralizzazione di Hamas non può avvenire per via militare. Lo ha dimostrato il conflitto in questi mesi: al di là dell’azione a Rafah, per ora rimandata, anche nelle altre aree della Striscia Yaya Sinwar e i suoi uomini sono ancora presenti. L’unica via per rendere innocua Hamas è quella politica, che porta all’istituzione di uno Stato palestinese. Ma Netanyahu non ne è affatto convinto e vuole continuare a combattere. Anche se 75 anni di contrapposizione hanno portato a una guerra continua, senza aprire spiragli di vera pace.
Hamas rifiuta l’accordo ma vuole trattare ancora. Perché è arrivato questo diniego? Il problema resta che Hamas vuole finire la guerra e Israele no?
La grande differenza tra le due parti è questa: Bibi Netanyahu non può accettare la fine del conflitto. Una tregua di tre o sei settimane può creare le condizioni per una cessazione definitiva delle ostilità, ma se Netanyahu dichiara che l’operazione a Rafah verrà fatta comunque, dice ad Hamas che non vuole finire la guerra. Esattamente il contrario di quello che USA, alleati europei e moderati arabi vogliono, convinti come sono che con la guerra non si sradichi Hamas; prova ne sia il fatto che dopo sette mesi lanciano ancora razzi dal Nord di Gaza.
Cosa occorre fare allora?
La soluzione è politica: dare più credibilità all’ANP, aprire la strada a uno Stato palestinese e a una grande vittoria israeliana che sarebbe il riconoscimento da parte dell’Arabia Saudita. Questo è un modo per sconfiggere Hamas senza dover fare altri sei mesi di guerra. I servizi di intelligence americani di CIA, Pentagono e Segreteria di Stato hanno detto chiaramente che non è possibile sradicare Hamas militarmente se non andando avanti a combattere almeno altri sei mesi, con le conseguenze che si possono immaginare.
Il segretario di Stato USA, Anthony Blinken, riferendosi all’operazione di terra a Rafah, ha detto che ci sono metodi alternativi per colpire ed eliminare Hamas. Intendeva indicare una soluzione politica? O alludeva a operazioni militari mirate, senza radere al suolo quello che rimane della Striscia?
L’ideale sarebbero operazioni mirate, ma se gli israeliani, che in questi giorni hanno ucciso intere famiglie nei loro raid a Rafah, non le hanno ancora fatte è perché non hanno l’intelligence necessaria per sapere dove sono quelli di Hamas. Appena finisce la guerra, comunque, Sinwar prima o poi riescono a eliminarlo, ma intanto sarebbe meglio creare le condizioni per una soluzione politica, mettendo l’ANP in grado di fare le sue riforme. Ci sono tanti modi per sconfiggere Hamas, quello che si prospetta ora è il peggiore: la guerra si protrarrebbe chissà con quanti morti ancora.
Il problema è anche l’approccio dei due capi delle parti in causa, Sinwar e Netanyahu?
Sì. Il primo è pazzo, un estremista, mentre Netanyahu sta caricando la vicenda del suo caso personale: se il governo cade perde il potere e rischia di essere incriminato. A Sinwar non interessa che migliaia di palestinesi muoiano, il suo obiettivo millenaristico è che Israele scompaia dalla faccia della terra: ha tutto interesse che il conflitto continui perché Israele non è mai stato così isolato nella sua storia. Se poi facessero l’operazione su Rafah sarebbe ancora peggio: se ne occuperebbe la Corte dell’Aja e Netanyahu non potrebbe uscire da Israele perché lo arresterebbero. Il primo ministro israeliano ha tutto interesse a fare andare avanti il conflitto: dove c’è Bibi c’è la guerra e dove c’è la guerra c’è Bibi.
Il no di Hamas all’ultima proposta di accordo non sembra definitivo; c’è una possibilità di trattative ulteriori?
Se vogliono trattare ancora è perché forse si rendono conto che per avere un futuro politico devono pensare al consenso dei palestinesi. Dicendo no all’accordo e permettendo agli israeliani di radere al suolo Rafah vanno in un’altra direzione. Anche all’interno di Hamas, però, ci sono scontri su questo: credo che l’ala politica, quella che sta a Doha, si chieda dove si può andare a parare andando avanti così. La stessa dinamica la troviamo nel gabinetto di guerra israeliano: Gantz è contro l’intervento a Rafah perché si rende conto dell’importanza dell’appoggio USA. E così anche Lapid, che invece sta all’opposizione.
Blinken ha offerto come contropartita per la rinuncia israeliana ad attaccare Rafah la normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita. Visto l’appoggio dei sauditi per intercettare i droni e i missili inviati dall’Iran contro Israele è troppo ipotizzare una futura alleanza Israele-Arabia?
Per il momento è troppo. L’Arabia Saudita, che per decenni ha accumulato ricchezze stratosferiche con il petrolio, è sempre stata ai margini delle vicende politiche mediorientali, detestando sia palestinesi che israeliani. Ora invece è diventato il Paese più importante del Medio Oriente e non solo. Sta cambiando la sua economia trasformandosi in una nazione ultramoderna in termini di nuove tecnologie ed è custode dei luoghi santi dell’islam. Ha riaperto i rapporti con l’Iran, è nemica dell’ISIS e sta diventando una superpotenza militare oltre che politica ed economica.
Tutto questo cosa può significare per Israele?
Il governo attuale di Israele ha altre priorità, perché Netanyahu, Smotrich e Ben Gvir vogliono la Grande Israele, ma il premio che gli USA possono offrire, se Tel Aviv accetta di finire il conflitto e di aprire la trattativa sulla nascita dello Stato palestinese, è di avere rapporti normali con l’Arabia Saudita. Gli americani offrono ai sauditi un’alleanza che equivale a quella di un Paese NATO, con aiuti militari di altissimo livello. In cambio i sauditi vogliono che Israele lasci nascere lo Stato palestinese, altrimenti non potrebbero convincere la loro opinione pubblica. Quindi gli USA stanno offrendo a Israele la fine del suo isolamento. Gli israeliani hanno già molti rapporti diplomatici con Egitto, Giordania, Emirati Arabi, Marocco. Ma un accordo con l’Arabia Saudita sarebbe una svolta. I sauditi sarebbero fondamentali anche per spingere i palestinesi ad essere razionali e pragmatici in una trattativa.
Adesso cosa succederà? L’operazione di Rafah si farà perché altrimenti a Netanyahu salta il governo?
A questo punto l’operazione Rafah la devono fare. Però i partiti di ultradestra andando al Governo hanno scoperto che hanno potere. Non è detto che non colgano l’importanza di restare al governo chiudendo un occhio rispetto a Rafah.
Come Hamas potrebbe convincersi, invece, ad accettare un accordo? Durante le trattative si è parlato anche di una tregua di un anno: se il cessate il fuoco fosse prolungato i leader palestinesi potrebbero pensarci?
Quando Blinken dice che il compromesso offerto è tale che Hamas non può dire di no è perché, tra Israele che voleva poche settimane di tregua e Hamas che voleva la pace, l’alternativa era fare un cessate il fuoco lungo, di tre o sei mesi, in modo che nel frattempo ci fosse margine per la trattativa diplomatica. Se Hamas, come sembra, è disposta a continuare a negoziare, forse è perché potrebbe accettare l’allungamento dei termini della tregua.
(Paolo Rossetti)
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