Un film sull’Afghanistan visto con occhio americano, Lone Survivor (2013) di Peter Berg con la star Mark Wahlberg. Della serie: Io so’ io e voi non siete un cazzo! Questa è la politica militare Usa nel mondo. I media hanno accostato le foto degli elicotteri in fuga da Saigon nel ’75 e ora da Kabul, una sintesi che metterebbe in ginocchio chiunque, ma non la concezione americana riguardo l’essere i salvatori dell’universo. Se in patria hanno sterminato gli indiani e successivamente salvato l’Europa dal nazismo, poi sempre più è stata una débacle, con forzature e mistificazioni (vedi Iraq) pur di affermare la propria potenza superiore.



Il regista ha vissuto per circa un mese con i Navy Seals, corpo militare d’élite insieme ai Delta Force e non a caso il film inizia con le dure prove dei militari e i loro abbandoni. Come dire: semo i più forti e sarveremo er mondo. La storia è vera, tratta dal libro autobiografico di Marcus Lutrell, unico superstite dell’azione di guerriglia in territorio afghano per eliminare il mullah Shan e la sua ghenga. È il 2005 e i taleban sono alla frutta, raggruppati a nord del Paese e di lì a poco sarebbero capitoleranno. Vengono paracadutati quattro seals che avvistano il villaggio dei banditi. Ma sul più bello incontrano dei pastori e qui abbiamo la prima pietra d’inciampo. Alcuni degli americani sono per eliminare i civili, ma Lutrell/Wahlberg si oppone per ragioni etiche e di regole militari internazionali. Li lasciano liberi, uno di loro avvisa il mullah e scoppia la battaglia. Durerà tre giorni, nel film poco più di uno.



Di fatto è un western in cui di quattro resterà solo uno. Wahlberg è ferito gravemente, ma ora arriva il bello. Viene salvato da Gulab, capo villaggio di etnia Pashtun che, come i medici, soccorre chiunque sia ferito e a muso duro affronta i talebani. Miracolo!

In tutto questo il supporto logistico americano sembra un’armata Brancaleone: arriva un elicottero con sedici militi e viene colpito da un razzo. Alla fine i morti saranno diciannove, un’azione – diremmo – conclusasi male per usare parole delicate.

Lutrell/Wahlberg verrà curato, accudito, difeso da Gulab e poi recuperato dalle forze statunitensi. Gulab è la figura di uomo che lotta per i propri principi e ideali e sarà invitato negli States a incontrare l’uomo che ha salvato. Chissà ora dov’è!



Gli americani morti e l’unico rimasto vivo sono diventati eroi in patria.

Parallelamente Biden tra una lacrima di coccodrillo e l’altra ha esaltato la fuga da Kabul. Emblematica la foto dell’ultimo soldato (quella color verde scattata con gli infrarossi) che lascia il suolo afghano, non un soldato qualsiasi ma un generale, a significare che è il comandante ad abbandonare per ultimo la nave.

Un film che è ‘na ‘mericanata, dove nonostante le grosse perdite umane militari (e civili) il culto della nazione americana che combatte per sconfiggere le ingiustizie viene sempre esaltato. Una pellicola d’azione in cui si vede la morte (nei combattimenti) e s’intravvede poco il dolore dei poveri afghani rappresentati da Gulab, che con la sua azione coraggiosa salva l’americano, ma mette a repentaglio il villaggio e la sua gente. E la speranza la si vede solo lì.

Il libro è uscito nel 2007, mentre il film è stato girato nel New Mexico sulle montagne impervie di Sangre di Cristo (più di 3.000 metri di altitudine) e le ricostruzioni del villaggio di Gulab a una settantina di km da Albuquerque in territorio messicano. Un territorio che conosco abbastanza bene essendo un lettore compulsivo di Tex Willer. Siamo vicini alla riserva indiana dei Navajo dove Aquila della Notte ne è il capo bianco e proprio nei luoghi dove sono avvenute le riprese sono ambientati molti dei fumetti della serie che questa estate mi sono riletto.

Gli eroi della casa editrice Bonelli sono quattro: Tex, Kit Carson, Tiger Jack e Kit Willer. Vedendo il film, che per buona parte mi è sembrato un western con i buoni contro i cattivi, mi è venuto in mente il fumetto. Lutrell/ Wahlberg mentre viene recuperato semi-moribondo dice: Non si abbandona mai la battaglia! Anche Tex lo dice spesso contraddicendo il pessimismo di Kit Carson, però il finale amaro del film è completamente diverso dal fumetto.

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