Venticinquesimo capitolo della saga di James Bond, quinta e ultima apparizione di Daniel Craig nei panni della celebre spia britannica; una delle prime pellicole a essere rimandata a causa della pandemia, una delle ultime a uscire nelle sale rispetto all’originale data di rilascio. No Time to Die si è decisamente fatto attendere, a dispetto del nome, ma si sarà dimostrato all’altezza del suo importante ruolo?
Dopo la sua scomparsa/ritiro l’agente 007 (Daniel Craig) viene richiamato dall’amico Felix Leiter (Jeffrey Wright) per un’ultima missione: impedire che un’arma chimica dalla potenza distruttiva illimitata cada nelle mani della Spectre. L’incarico porterà Bond a incrociare vecchi nemici e nuovi amici, fino a scontrarsi con l’enigmatico Lyutsifer Safin (Rami Malek) e a lasciare la sua identità di spia alle spalle, in un modo o nell’altro. La trama è tra le più classiche, tra inseguimenti, doppi giochi e missioni in luoghi suggestivi, ma sono molti i tasselli che compongono l’ultima impresa del Bond di Craig. Da una parte vengono ripresi personaggi dei capitoli precedenti per concluderne le storie, primo tra tutti Stavro Blofeld (Cristoph Waltz) in un ruolo di simil-Hannibal Lecter; dall’altra si apre la pista a nuovi spunti e protagonisti, con l’introduzione del nuovo agente doppio zero Nomi (Lashana Lynch).
Nonostante il gran numero di comprimari, la storica spia dell’MI6 rimane la star indiscussa di No Time to Die, che ne approfondisce la psiche come mai prima d’ora: il Bond interpretato da Craig è sempre stato più umano e sfumato dei suoi predecessori, ma qui la sua relazione con Madeleine Swann (Léa Seydoux), i suoi dubbi e le sue fragilità sono addirittura più importanti della missione stessa. L’ex-007 non si fa certo pregare quando gli viene proposto di tornare in azione, ma così facendo non sta ammettendo a se stesso di non meritare niente di più dalla vita? È difficile comunicare simili dubbi e sospetti con un personaggio che riesce a essere impassibile anche nel bel mezzo di un inseguimento, ma Daniel Craig ha perfezionato quest’arte, ed entra a pieno titolo nel novero dei migliori Bond di sempre.
Non pensate che l’attenzione all’aspetto emotivo vada a detrarre da quello tecnico: Cary Fukunaga, regista dell’acclamata serie True Detective, regala scene d’azione al cardiopalma che si sposano con ambientazioni variegate, prima fra tutte la sequenza iniziale a Matera (che conferma il fatto che gli americani ci credano bloccati negli anni ’50 con la coppola e le pecore in casa, ma quella è un’altra storia). Forse la componente action non è pari a quella dei film di Mendes, ma tra piani sequenza ben realizzati e le colonne sonore di Hans Zimmer, che cita l’iconico tema musicale senza abusarne, i vari inseguimenti e sparatorie intrattengono per buona parte del film.
Introspezione ma anche azione, tirare le fila dei personaggi vecchi e introdurne di nuovi per eventuali progetti futuri: non sorprende che il film sia finito per durare la bellezza di due ore e quaranta, o almeno non sorprenderebbe se questo minutaggio fosse utilizzato a dovere. La verità è che la lunghezza della pellicola è ingiustificata, asservita a una trama che non è complessa quanto contorta; da ciò derivano problemi di ritmo che si avvertono principalmente nella parte centrale, una sequela di scene action che pur essendo ben girate risultano ridondanti e stancano, rendendo il terzo atto meno godibile. Anche la caratterizzazione dei nuovi personaggi soffre di questi problemi di ritmo: l’agente Nomi funziona – merito, sospetto, della partecipazione alla sceneggiatura di Phoebe Waller Bridges – ma non trova mai una scena che le permetta di distinguersi, e il ruolo di Ana de Armas è simpatico ma del tutto fine a se stesso.
La vera vittima della cattiva gestione dei tempi è l’antagonista di Rami Malek. I film di Bond ci hanno abituato a villain pittoreschi che giocano tutto sul carisma dell’attore, e quello di quest’ultima pellicola non sembra far eccezione, considerato che si chiama letteralmente Lucifero e ha il volto completamente sfregiato. Tuttavia il modo in cui viene introdotto suggerisce che possa essere più sfaccettato dei classici geni del male a cui siamo abituati, e al tempo stesso lo lega a doppio filo a Bond per quanto concerne i temi del film. Malek sarebbe stato in grado di dar vita a uno dei cattivi più interessanti della saga, ma il suo potenziale viene meno nel momento in cui rivela il suo grande piano, poco ispirato e alquanto slegato da com’era stato presentato fino a quel momento. Se sul piano emotivo Lyusifer Safin costituisce un ottimo ostacolo finale per il nostro Bond, il fatto che ci spieghi cosa stia effettivamente facendo a due ore passate e che non sembri neanche importargli più di tanto danneggia l’intera economia della storia, che manca di una vera e propria spinta in avanti.
No Time to Die rimane un buon film di intrattenimento e le sue scelte vincenti finiscono per avere la meglio sui suoi problemi strutturali. I riferimenti alle pellicole passate e i vecchi personaggi sono ben dosati, sia che si tratti di alleati ambigui come il sopracitato Blofeld o di spalle comiche come l’informatico Q (Ben Wishaw). Il finale, la cui nota agrodolce si confà perfettamente al personaggio, riesce a far breccia anche in chi non si è esattamente entusiasmato per quanto venuto prima, e chiude le avventure del Bond di Craig con più eleganza del precedente Spectre, pensato anch’esso all’epoca come un finale definitivo.
Sono passati ventun anni da quando è stata introdotta l’ultima versione cinematografica della celebre spia: un adattamento più serio, violento, ma al tempo stesso più vulnerabile e vicino ai romanzi di Ian Fleming. Dopo due capitoli ampiamente promossi (Casino Royale, Skyfall) e due meno riusciti (Quantum of Solace, Spectre), paradossalmente la pentalogia si chiude con un film che sta nel mezzo, colmo di potenziale che tuttavia non viene del tutto realizzato. Vale la pena vederlo, che si sia appassionati o no, ma mezz’ora di film in meno e un po’ più di accortezza non sarebbero guastate.
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