Dopo la sospensione del 2018, quest’anno è ritornato il Nobel della Letteratura, assegnato a due autori: Olga Tokarczuk, polacca, a cui va quello di recupero dall’anno scorso, mentre Peter Handke è il Nobel per la Letteratura 2019. Già detta così suona un po’ ridicola, ma le cose peggiorano se si ricorda che la sospensione fu dovuta a faccende di molestie sessuali, comprensive di palpeggiamenti a principesse, e la solita, fraudolenta gestione di denaro, a favore di mariti di poetesse e membri dell’accademia, che provocò le dimissioni di alcuni di loro; dimissioni, tanto per continuare a ridere, che il regolamento dell’Accademia svedese del Nobel non prevede, essendo i membri designati a vita.



Visto come vanno le cose, dunque, stupisce un premio dato a un autore davvero meritevole che, come personaggio, può essere discutibile, ma come scrittore no. E questo è ciò che importa. Già nelle prime ore di circolazione della notizia, infatti, il chiacchierìo del web ha ricordato come nel 2014 Handke abbia dichiarato che il Nobel andava abolito; altri hanno rispolverato il suo endorsement a Milosevic durante la guerra dei Balcani; altri ancora l’antipatia del suo carattere, che gli fece sarcasticamente affermare, tempo fa, che gli austriaci facevano bene a non voler aver niente a che fare con lui.



Il fatto è che la crisi del “Nobel della letteratura” (non degli altri Nobel) è in realtà la crisi della letteratura in genere. Dalla prima assegnazione, nel 1901, la letteratura ha perso molto terreno, diventando infinitamente meno influente, condizionante, immanente alla vita delle nostre società. Anche per questo è molto più facile dare i Nobel agli scienziati, che invece l’influenza l’hanno aumentata: per quello della letteratura già il rischio è di scivolare in designazioni che hanno dell’ideologico e del politico, come si è visto in diverse occasioni (in questo c’è qualche somiglianza col Nobel per la Pace).



Inoltre anche come forma d’arte la letteratura ha meno spazio e influenza nel cuore di tanti: quasi quasi sarebbe meglio istituire il Nobel alla musica, o al cinema o persino al programma televisivo. E in effetti certi premi recenti, come quello al comico/attore Dario Fo o al cantautore Bob Dylan, pur designandosi come letteratura, vanno già nell’altra direzione. Anche per Peter Handke poi non sarà stata senza peso la collaborazione, già universalmente segnalata, col regista Wim Wenders, per il quale ha scritto molti dialoghi del capolavoro Il cielo sopra Berlino, regista che da un altro romanzo di Handke ha tratto ancora un film.

La motivazione dell’Accademia per il premio ad Handke è come al solito talmente generale e fumosa da sospettare che non l’abbiano mai letto: “Per un lavoro influente che con ingegnosità linguistica ha esplorato la periferia e la specificità dell’esperienza umana”. Il senso del ridicolo non pertiene evidentemente agli accademici. Ma in quella “ingegnosità linguistica” c’è qualcosa che c’entra con Handke, la cui opera appartiene al secondo Novecento ed è parte di quella straordinaria, tarda fioritura di scrittori austriaci, tra cui soprattutto Ingeborg Bachman e Thomas Bernhard, in cui riverbera ancora la grandezza mitteleuropea ereditata da Musil, Roth e dal fermento viennese d’inizio secolo, quello di Freud, Wittgenstein e Schnitzler per intenderci.

Handke, che è anche scrittore sperimentale, è erede di quel cuore di cui ancora oggi l’Europa può orgogliosamente fregiarsi. Il premio stupisce perché quell’eredità riverbera nella stessa scrittura letteraria di Handke, cosa che oggi in pochi sembrerebbero in grado di apprezzare e perfino leggere. Al di là dei romanzi, è soprattutto la sua prosa d’arte che, come afferma il suo traduttore italiano Hans Kitzmüller, “sperimenta tutte le possibilità della lingua di dire con pazienza ogni, ma proprio ogni cosa, ogni dettaglio, ogni sfumatura, anche minima. A cosa serve questo? Ad una maggiore intensità delle nostre sensazioni, percezioni, esperienza delle cose del mondo”.

Attraverso questa citazione, arriviamo dunque a un’opera di Handke che da sola basta a giustificare il Nobel e una vita di scrittore: il Canto alla durata, breve poema che assomiglia più a una prosa lirica, in cui l’esperienza di intensità della percezione del mondo è ai massimi livelli. Il Canto alla durata è l’opera che inaugura effettivamente il ventunesimo secolo. “Un testo sconvolgente che è stato capace di farmi cambiare le radici stesse del mio pensiero, rovesciando il mio sguardo sul mondo” ha affermato l’editore Raffaelli, per il quale il Canto alla durata potrebbe essere il libro della vita per un piccolo editore come lui (sogno però irrealizzabile, perché i diritti appartengono a un altro editore):

“Quel senso di durata cos’era?/ Era un periodo di tempo?/ Qualcosa di misurabile? Una certezza?/ No, la durata era un sentimento/ il più sfuggevole di tutti i sentimenti/(…)/ eppure con il suo aiuto/ avrei potuto irridere qualsiasi avversario/ e disarmarlo”.

Ecco a cosa ci fa volgere Handke. A me piace pensare che la durata stia in quei momenti memorabili di evidenza della realtà in cui, come diceva un suo collega poeta, il naufragare è dolce in questo mare. Succede proprio così: anche questo piccolo libro è una durata, e la sua esistenza restituisce senso alla letteratura, dà valore a una vita di scrittore e può accadere addirittura che perfino la commissione del Nobel se ne accorga.