Il braccio di ferro Eni-Ue ha visto il colosso italiano (sono quasi 100 i paesi in cui Eni ha infrastrutture) portare a casa la possibilità di non mettere in pericolo la joint venture con Gazprom. Il cane a sei zampe prosegue nella propria politica strategica, ed è un bene per il Paese.

Eni è l’Italia, è nelle prime dieci aziende sostenibili al mondo e risulta nelle prime trenta aziende mondiali, oscilla tra settimo e decimo posto nel proprio settore, con un fatturato pari a 83 miliardi di dollari. Per chi non lo sapesse Eni non solo si occupa di estrazione di petrolio e gas naturale in oltre 40 Paesi, tra cui Italia, Libia, Egitto, Norvegia, Regno Unito, Angola, Congo e Nigeria, ma anche di fornitura, commercio e commercializzazione di elettricità, attività di trasporto internazionale di gas e commercio di materie prime e derivati. I 17 obiettivi di sviluppo sostenibile per le persone, il pianeta e la prosperità identificati dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite nel 2015 costituiscono un riferimento imprescindibile per tutta la comunità internazionale (vedi grafico qui sotto).



Eni fin dai tempi di Enrico Mattei, il fondatore, ha come obiettivo la tutela degli interessi italiani nel settore energetico (fondamentale per la nostra produzione industriale, ottava al mondo, ma eravamo quarti con un certo Craxi).

L’analisi del piano strategico 2022-2025, fondamentale per l’Italia, è stato illustrato dall’amministratore delegato Claudio Descalzi che ha esordito con queste parole alla presentazione: “La guerra in Ucraina ci sta costringendo a vedere il mondo in modo diverso da come lo conoscevamo. Si tratta di una tragedia umanitaria, che ha generato nuove minacce alla sicurezza energetica e alla quale dobbiamo fare fronte senza abbandonare le nostre ambizioni per una transizione energetica equa”. Fondamentale anche questo passaggio di Descalzi: “grazie alle alleanze consolidate con i Paesi produttori, Eni è in grado di reperire fonti sostitutive di energia da destinare alle necessità europee”.

L’Ad parla quindi di “necessità europee”, non solo italiane. Questo perché Eni detiene il primato di fornitura in Europa (sua anche la rete strategica spagnola) ed è in grado di rendere disponibili sul mercato oltre 14 Tcf (Trillion cubic feet) di risorse addizionali di gas nel breve e medio termine. Nessuno in Europa può tanto.

Le produzioni tedesche e francesi sono appese alle forniture di gas e per l’Italia si apre uno spiraglio importantissimo: diventare un hub fondamentale in seno alla Ue, facendo da ponte con l’area Brics (Paesi che con noi dialogano e ai quali diamo tecnologia estrattiva e di gestione).

Procede intanto il processo di quotazione di Plenitude, l’asso nella manica di Eni nel settore elettrico, con la compilazione del documento di registrazione con l’Autorità di mercato italiano, la Consob. Per la nuova società l’obiettivo è quello di avere oltre 2 Gw di capacità installata entro il 2022, rispetto a circa 1 Gw nel 2021, e di oltre 6 Gw alla fine del piano. Entro il 2025 l’obiettivo è avere oltre 11,5 milioni di clienti rispetto agli oltre 10 milioni del 2022. Prevista inoltre una crescita dei punti di ricarica per veicoli elettrici: fino a oltre 30mila entro fine piano, per un valore di quasi 2 miliardi.

Con queste strategie Eni si pone come un faro economico in Europa, e ciò a molti Stati europei non piace, perché si preferisce non dipendere dall’Italia, soprattutto nel Nord Europa.

La Germania ha allo studio una legge che di fatto riporta il carbone al centro della produzione di energia (accantonato l’utopico progetto green della Merkel). In pratica a Berlino, negli anni 90, andavano a carbone (ignorando i nostri brevetti green di riciclo dell’olio industriale da 5 miliardi di euro di guadagno annuo) e sono passati al gas nel 2000 (quando l’Italia con Snam creò una rete europea), siglando però accordi bilaterali con i russi (a prezzi stracciati, di fatto producendo fuori dalle regole Ue imposte dai tedeschi stessi…). Ora che l’Italia torna hub del gas i tedeschi ripassano al carbone e non abbandonano il nucleare. E a questo occorre aggiungere il vizietto, tutto tedesco, degli aiuti di Stato alle banche, svariati casi finanziari insabbiati e gli aiuti fuori debito (con leggi ad hoc…) alle proprie imprese.

L’Italia in questo momento ha in mano le carte e non pochi accordi a livello mondiale. Forse è il caso che venga posto al centro l’interesse nazionale.

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