Stato di salute della maggioranza di governo? Molto buono per la stragrande maggioranza degli osservatori. Eccellente per qualcuno, complice anche la stanziale assenza di un’opposizione degna di questo nome. Anche i sondaggi ci restituiscono una coalizione governativa stabilmente in testa, senza grossi problemi, almeno in prospettiva immediata.



Vien da chiedersi se sia davvero tutto oro quello che luccica. E, naturalmente, i più navigati qualche problemino cominciano a intravederlo. C’è compattezza fra gli alleati, ma non sempre dialogo. Soprattutto c’è una leader che accentra su di sé tutte le scelte fondamentali, lasciando pochissimo spazio agli alleati, e nessuno ai suoi uomini. Dopo sette mesi a Palazzo Chigi il modus operandi di Meloni appare ormai evidente: non c’è dossier che possa avanzare senza il suo esplicito consenso.



Si guardi ad alcune delle ultime partite: sulla Rai la situazione si è sbloccata dopo mesi di schermaglie solo quando la premier è scesa in campo in prima persona, ottenendo le dimissioni di Fuortes e insediando gli uomini da lei scelti nei posti chiave. Più o meno allo stesso modo era andata la partita delle nomine nelle grandi società pubbliche: agli alleati (che hanno fatto strenua resistenza) è stato concesso pochissimo. Soltanto a Salvini è stato sinora lasciato un briciolo di spazio di manovra, ma solo a patto che rimanga sul suo terreno specifico, quello delle opere pubbliche. Dalle grandi scelte il leader della Lega, ministro e vicepremier, è stato sistematicamente tenuto lontano.



L’egemonia di Palazzo Chigi si è esercitata ormai tante volte, dalla legge di Bilancio agli aiuti all’Ucraina, sino al decreto lavoro, tanto per fare qualche esempio. Quando la Meloni decide di aggredire un problema, alla fine si fa come vuole lei. La leadership della maggioranza è sua, e viene esercitata con fermezza. Modi quasi bruschi, lamenta qualcuno.

Ora la premier ha deciso di aggredire uno dei temi storicamente più delicati, la riforma della giustizia. Quando sabato a Catania lo ha annunciato non ha fornito altri particolari, si è limitata a ribadire di considerarla a pieno titolo fra le riforme economiche, come aveva detto nelle dichiarazioni programmatiche di ottobre: la lentezza dei processi ci costa almeno un punto di Pil l’anno, secondo le stime di Bankitalia.

Un po’ più nello specifico è entrato il guardasigilli Nordio, lo stesso giorno: suo obiettivo un processo più veloce, digitale, ma anche garantista. Un intervento è possibile anche sui codici, che giudica disallineati, perché frutto di epoche diversissime. Il ministro ha indicato poi l’incertezza del diritto come patologia sentita ormai come fisiologica, con 250mila leggi in vigore. Su questo, va detto, l’azione del ministro Casellati qualche segnale l’ha già dato, portando all’abrogazione di 9mila regi decreti risalenti ai primi due decenni successivi all’Unità d’Italia, con l’obiettivo di arrivare a 20mila leggi vetuste cancellate entro luglio.

Nordio ha anche indicato fra gli obiettivi la tutela della segretezza delle conversazioni, facendo capire che il tema delle intercettazioni telefoniche verrà riproposto. In che termini nessuno lo sa, così come nessuno ha chiaro come si posizionerà Meloni in merito a un altro nodo ingarbugliato: la separazione delle carriere fra pubblici ministeri e magistrati giudicanti, che tanto piace a Forza Italia e Lega (con l’aggiunta del terzo polo di Calenda e Renzi), mentre da sempre trova Fratelli d’Italia assai più cauta.

Il “metodo Meloni” prevede che sino a che la leader non ci avrà messo la testa sopra nessuno saprà con precisione quale sarà la proposta del Governo. Mai come sulla giustizia questo schema potrebbe però rivelarsi pericoloso. Alle posizioni differenziate nella maggioranza potrebbero sommarsi le prevedibili barricate che Pd e M5s sono pronti ad erigere a difesa di una magistratura mai così debole come dopo gli scandali scoperchiati a partire dal caso Palamara, scandali più volte vigorosamente censurati dal presidente della Repubblica, Mattarella.

In teoria proprio questa debolezza della magistratura dovrebbe rendere favorevole il momento per un ridisegno dei rapporti fra potere politico e giudiziario. Ma il “metodo Meloni” non semplifica le cose. Rischia, anzi, di complicarle.

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