Giorgia tace, Salvini parla, Forza Italia stanga le “colombe” che flirtano troppo con la presidente. Un pessimo inizio, ancorché informale, per la rocambolesca convivenza delle tre anime di questa coalizione di centrodestra che promette di replicare al proprio interno il desolante spettacolo del fuoco amico che ha giù minato le ultime tre precedenti maggioranze di governo in Italia: Conte 1, Conte 2 e Draghi.
Eppure… eppure c’è una specie di superpolizza che dovrebbe garantire – verbo inappropriato – una vita se non lunga almeno media – un annetto? – al nuovo assetto precario del Paese. Questa superpolizza si chiama “nomine”.
Attenzione: non le nomine dei viceministri e dei sottosegretari che tra qualche giorno dovranno essere indicati dal premier. C’è già battaglia sui nomi, ma la spartizione sarà relativamente indolore, perché comunque l’indirizzo dei dicasteri è garantito dalle figure dei ministri, che sui loro collaboratori hanno comunque una sorta di vigoroso diritto di veto: parole in libertà, fughe in avanti o retromarce, ma non s’è mai visto un sottosegretario capace di bloccare il “suo” ministro o indurlo a firmare qualcosa controvoglia
No, le nomine cruciali – di qui alla primavera prossima – perché ne sarà ferocissima la spartizione ma blindatissima la voglia di non rompere su di esse, sono sostanzialmente 76. I posti d’oro nelle società controllate dal Tesoro, e anche quelli dei vertici delle società controllate indirettamente. Nessuna crisi interverrà a guastare la festa: meglio un cattivo compromesso, per i partiti oggi al potere, che abbandonare la partita.
Allora fuori i nomi: Eni, Enel, Leonardo. E poi Monte dei Paschi, Poste, Consip – la “cabina di regia” che gestisce una fetta importante degli acquisti della pubblica amministrazione (compresi quelli legati al grisbi del Pnrr) – e poi la Amco, la società controllata direttamente dal Tesoro che raccoglie e ricolloca i crediti deteriorati del sistema bancario. Sono nomine triennali, deciderle significa, per i partiti di maggioranza, prenotarsi potere in quelle aziende anche nell’ipotesi di una crisi di governo e di un nuovo ricorso alle elezioni anticipate: perché ci vuol altro che una crisi di governo per legittimare un esecutivo subentrante, con o senza nuove elezioni, a revocare il mandato a colossi come Eni o Enel, dove lo Stato governa mediando con i grandi fondi internazionali che, volendo, possono delegittimare il nostro Paese sui mercati.
Chi nomina oggi quei top manager potrà contare in qualche modo sulla loro riconoscenza, pur nel solco di quanto lecito per chi riveste quelle responsabilità, anche all’indomani di una crisi di governo e magari di nuove elezioni. E dunque si vedrà se quella parola evocata nella scelta di ribattezzare il ministero dell’Istruzione – la parola “merito” – sarà rispettata e applicata seriamente oppure no nella selezione di questi pivot del capitalismo misto all’italiana, Stato e privati nelle stesse barche.
Già: perché si fa presto a dire “merito”. Abbiamo visto tante volte – nella prima come nella seconda Repubblica – cavalli nominati senatori, sull’immortale esempio di Caligola. Ma un asino al vertice dell’Eni, se Dio vuole, non s’è ancora visto: di sicuro, però, di fronte al revanscismo di Lega e Forza Italia e alla “panchina corta” di un partito come Fratelli d’Italia che ancora 4 anni fa valeva appena 1,4 milioni di voti contro i 5,9 di oggi – e quindi aveva “effettivi” proporzionati a quell’esiguo plotone di elettori – la riffa per le poltrone d’oro sarà senza precedenti.
La premier e il suo “cerchio magico”, nel primo round delle cruciali nomine ministeriali, si sono difesi bene, ma avevano dalla propria l’autorevolezza del presidente della Repubblica che, grazie a Dio, in base alla Costituzione si assume direttamente la responsabilità di autorizzare la scelta dei ministri proposta dal premier incaricato. Già al gradino inferiore, quello dei viceministri e dei sottosegretari, il “patronage” del Colle è meno forte. Ancora più in basso (si fa per dire: l’amministratore delegato dell’Eni è ben più potente di molti ministri) l’orbita protettiva del Colle non arriva.
Quindi, largo alla riffa: e ci vorrà tutto il sangue freddo e la determinazione della “sua” Garbatella per dare a Giorgia Meloni la forza di imporre nomi accettabili e non ispirati unicamente alla logica predatoria che potrebbero invece possedere sia Forza Italia che la Lega che gli stessi colonnelli di FdI.
Anche perché, diciamolo: nessun governo, quello di Mario Draghi compreso, ha mai saputo distillare un metodo, una “metrica” condivisa, per pesare l’attitudine di un manager a rivestire ruoli così delicati e potenti. E quindi ogni volta è come una prima volta. E le compagnie decisionali non sembrano migliorate se non – forse – rispetto alla breve e velenosa epopea dell’“uno vale uno”.
Magra consolazione: se ai “magnifici 76” posti d’oro da ricoprire si aggiungono gli altri 100 di secondo piano ma comunque appetibili da assegnare nelle controllate – dal Mediocredito Centrale alla Popolare di Bari, a Trenitalia, a Rfi – le opportunità per sfamare tutti virtualmente si moltiplicano; ma con esse, ahimè, crescono proporzionalmente gli appetiti.
Qui potrebbe partire un totonomine coi fiocchi, e così sarà: ma non adesso. La rissa inizierà appena chiusa la tornata delle ultime nomine di governo. E durerà per mesi interi. Allacciamo le cinture: ci sarà turbolenza.
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